Sorridente, scherzoso, a pranzo con un’amica: «Ho soldi per sei vite». Qualche giorno prima aveva ucciso Cinzia Pinna
Olbia, la testimonianza di chi ha visto Emanuele Ragnedda in un locale di Pittulongu il 16 settembre: la 33enne di Castelsardo era già morta
Olbia Una stretta di mano e un sorriso cordiale, come le vecchie conoscenze che si incontrano ogni quindici anni e poi svaniscono nel nulla. Pittulongu, spiaggia dello Squalo, Emanuele Ragnedda è seduto insieme a un’amica al tavolo del chiosco ristorante affacciato sulla spiaggia. A pranzo mangia e beve qualcosa, parla ad alta voce, saluta tutti calorosamente e si gode la vista sul bel mare di fine estate. Con quel fare da padrone onnipotente sembra sereno e a suo agio. Invece nasconde il più terribile dei segreti. È il 16 settembre, Cinzia Pinna è scomparsa – presumibilmente morta – da cinque giorni e da lì a poco lui sarà indagato per omicidio. Lui stesso ha ammesso di averla uccisa con uno o più colpi di pistola.
Stessa spiaggia e stesso mare, il tavolo di Emanuele Ragnedda è vicino al mio. Di spalle non ci riconosciamo, anche perché dopo tanto tempo siamo diventati la custodia di quelli che eravamo. Ci pensa il titolare a colmare il vuoto di memoria e ci presenta spalancando l’armadio dei ricordi. Il primo e unico incontro, una quindicina di anni fa, per una degustazione nella mitica tenuta Capichera, il tempio sacro del vermentino di Gallura. Vino eccellente e costoso, non per tutti. Quel giorno in cantina c’era lui, Emanuele, allora giovanotto, e c’era il padre Mario.
Un visitatore come tanti e una degustazione come le altre, niente di più, ma tanto è bastato quindici anni dopo per riallacciare il filo del discorso spaziando dai piaceri del buon vino alle delizie della cucina tradizionale sarda fatta di pecora in tegame e filindeu steso da mani esperte in Barbagia. A s’antiga, come ripeteva spesso e ossessivamente durante la pur breve conversazione. Poi una frase buttata lì, nel momento in cui non c’entrava niente: «Ho tanti di quei soldi che basterebbero per sei vite». Un segnale che consiglierebbe a chiunque di salutare e andare via. Tutto questo senza mai una smorfia, un tremore, un segno di incertezza rivelatore dell’abisso in cui era già precipitato. E ora, con il senno di poi, viene in mente la lucida follia con cui Emanuele Ragnedda ha vissuto come se niente fosse le ultime due settimane, dalla scomparsa di Cinzia Pinna al fermo e alla confessione: «Sì, l’ho uccisa io».
Un lungo e surreale trip tra aperitivi nei locali tra Arzachena e Palau, puntate a San Pantaleo e ristoranti sul mare nel litorale di Pittulongu. E poi bottiglie di vino pregiato regalate agli amici. Per questa capacità di vivere una doppia vita, lucida e fuori dalla realtà, viene in mente il personaggio di uno straordinario film di Anthony Minghella, “Il talento di Mr. Ripley”, liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Patricia Highsmith. La verità è che, con un tale fardello sulle spalle, chiunque si sarebbe tradito o sarebbe crollato. Lui invece no e ha continuato a ostentare la sua vita da padrone del vermentino più costoso del mondo. La resa è venuta solo dopo, davanti ai carabinieri e al magistrato.
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