La Nuova Sardegna

Lo Stato vince solo quando fa giustizia

Giampaolo Cassitta
Stefano Cucchi
Stefano Cucchi

Stefano Cucchi è morto per le botte ricevute in una caserma, ma anche quando abbiamo pensato che fossero cose normali, che capitano a chi se le va a cercare

30 novembre 2019
3 MINUTI DI LETTURA





È un stato omicidio. Lo sapevamo. Ci son voluti dieci anni per cristallizzare (almeno nella condanna di primo grado) un reato commesso all'interno di una caserma di carabinieri. Stefano Cucchi non è morto per aver assunto "droghe", non è morto perché rifiutava la terapia. Non è morto neppure perché era cafone, rompiscatole, paranoico come alcuni detenuti quando si presentano nelle infermerie. È morto perché è stato selvaggiamente pestato e quelle lesioni sono servite a farlo morire. Gli hanno cercato l'anima a forza di botte. Lo Stato ha vinto e ha perso. Questa prima condanna restituisce la speranza a chi si era rivolto quasi con disperazione alla giustizia: i familiari di Stefano, con la sorella Ilaria in prima linea. Ha vinto perché ha avuto il coraggio di ripartire dopo gli errori di processi sbagliati, di condanne errate e di una narrazione completamente "storpiata" da uomini che lo rappresentavano. Qui lo Stato ha perduto. È sceso negli inferi, ha camminato nella menzogna, nella paura, ha voluto fortemente nascondere la verità, depistare le indagini, ha fatto finta - e lo ha fatto per anni - che tutto fosse chiaro o che tutto fosse complicato e che, in fondo, un tossicodipendente non poteva avere la stessa dignità di medici e di carabinieri. C'è voluta tutta la forza, l'amore, la cocciutaggine, la passione di Ilaria Cucchi, la sorella che tutti vorrebbero avere vicino, la Giovanna d'Arco che ha sfidato i silenzi, i tentativi di annacquare la verità. Lo ha fatto insieme a un altro piccolo grande cocciuto: Luigi Manconi. Lui, con l'associazione a buon diritto, lui senatore testardo e mirabile difensore delle ingiustizie, lui sardo e orgoglioso, sociologo attento e passionevole. Lui e Ilaria hanno macinato parole per anni, hanno cavalcato strade impervie, gonfie di curve e piene di cartelli con la scritta "divieti d'accesso". Stefano Cucchi era un punto importante. Non era una partenza o un arrivo ma era - doveva essere - la dimostrazione che lo Stato non si vendica e protegge i cittadini: tutti i cittadini sono uguali davanti alla Legge. Stefano ha gridato per anni senza essere ascoltato se non da pochissime persone. Un piccolo drappo di parlamentari: Emma Bonino, Rita Bernardini e Marco Perduca su tutti. Anche un altro deputato sardo del Pd, Guido Melis, si interessò a Cucchi e ne ricordo la sua voglia di arrivare a una verità, a una giustizia equa, chiara. Tutti ad aspettare la risposta che pareva non dovesse giungere mai, una risposta a quel corpo straziato, lacerato e dimenticato. Quel corpo che nessuno ha osservato, ha interrogato, ha contemplato. Quel corpo inerme che da un carcere è finito all'ospedale senza troppe domande, con troppa velocità e poca mestizia, con troppa superficialità e molta fretta. È un tossicodipendente, un rompiscatole, uno che se l'ha cercata. Tutto orrendamente scritto, tutto terribilmente già vissuto. Stefano Cucchi è morto molte volte. Troppe. È morto dentro le prime condanne a dei poliziotti penitenziari e a un dirigente del Ministero della Giustizia completamente estranei. È morto nei verbali scritti dai carabinieri e avvallati dai superiori. È morto quando i rappresentanti dell'arma hanno negato davanti a un tribunale - e quindi davanti al popolo - che loro non sapevano, che non ricordavano e che, in fondo, si trattava di un tossicodipendente. Uno abituato a essere "fuori". E non era così. Ma Stefano Cucchi è morto anche quando i politici ci hanno ricamato sopra, quando gli hater hanno insultato Ilaria, il padre. Quando hanno avuto compassione per la madre. È morto tutte le volte che ognuno di noi ha pensato che sono cose normali, che capitano solo a chi se le va a cercare. È morto quando anche noi, tutti noi, abbiamo provato a lasciar perdere, che son cose che si superano. Gli hanno cercato l'anima a forza di botte e adesso, dopo questa prima condanna, quell'anima, forse, ha lanciato un debole e forte sorriso. Non a noi, ma a sua sorella Ilaria e a Luigi Manconi sì.

In Primo Piano
Elezioni comunali 

Ad Alghero prove in corso di campo larghissimo, ma i pentastellati frenano

Le nostre iniziative