La Nuova Sardegna

Libertà di insulto e zero controllo, la rete fa paura

Stefano Sotgiu
Libertà di insulto e zero controllo, la rete fa paura

I social network stanno cambiando la nostra cultura, la società e il modo di far politica: è urgente trovare norme di tutela

26 gennaio 2020
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Che i social network stiano cambiando cultura, società, politica, democrazia, ci stiamo rendendo conto ogni giorno di più. Sono un fattore. Di cui bisogna tenere conto con sollecitudine. Gli elementi di allarme sociale sono già tutti suonati da tempo. La diffusione di fake news, il divampare dell'odio in rete, l'intossicamento digitale, la violazione della nostra privacy sono fra i fenomeni più virulenti con i quali facciamo i conti in questo inizio di XXI secolo. Lo ha affermato chiaramente Nick Clegg, responsabile della comunicazione di Facebook durante un suo recente intervento in un'università italiana: ad Internet servono nuove regole. Facebook sta facendo tanto - afferma - per contrastare questi fenomeni disfunzionali ma occorre l'intervento degli Stati a regolare la Rete, i social network.

Gli stessi progettisti "eretici" di queste piattaforme, come Jaron Lanier o i fondatori del web, come Tim Berners-Lee lottano perché le cose cambino, arrivando ad esortare - è il caso di Lanier - di cancellare il più rapidamente possibile il proprio account social. Non si tratta di una proposta campata in aria, a ben vedere. Lo stesso filosofo italiano Luciano Floridi, docente ad Oxford di Digital Ethics, consiglia di porre maggiore attenzione sulla cultura "californiana" della libertà di parola a tutti i costi. In questa cornice s'inserisce il solito dibattito italiano polarizzato fra iper-liberali e giustizialisti.

Sia il Partito Democratico, sia il movimento delle Sardine - oggetto peraltro di campagne di odio e bullismo social - hanno presentato proposte per limitare l'anonimato in rete e per sanzionare l'odio, con un vero e proprio Daspo, simile a quello che viene comminato ai tifosi che praticano condotte proibite negli stadi. Il solito dibattito a clava in mano, come dicevamo, caratterizzato da epiteti poco edificanti. Sì, perché nel nostro Paese non si riesce a discutere in maniera serena ed obiettiva di niente. Eppure è largamente condivisa la necessità di arginare le disfunzioni dei social network. E' sul come fare che ci si divide: da una parte l'approccio "culturalista". In sostanza non sarebbe il medium social il problema ma chi lo usa. Quindi va costruita una nuova umanità digitale, con grandi investimenti nell'educazione e nella formazione all'utilizzo dei nuovi strumenti. L'altro polo del campo di discussione è occupato da un approccio più "giustizialista". Il problema sono i social network che permettono a tutto questo di concretizzarsi e pertanto devono essere gli Stati a sanzionarli e/o a sanzionare le persone che si comportano male con provvedimenti di limitazione dell'anonimato o di espulsione. Ci sono elementi di verità in entrambe le posizioni, ovviamente.

E' vero che già i social network adottano provvedimenti contro chi sparge odio o fake news on line. Ma è altrettanto vero che tutto questo non è sufficiente ad arginare il fenomeno. Ed è vero che è l'anonimato, vero o percepito, spesso, la causa di fenomeni di de-individuazione e del cosiddetto "effetto Lucifero", che trasforma miti pensionati in feroci Tamerlani da tastiera. Posta così, la questione si polarizza e si trasforma nel solito campo di battaglia. Qualcosa, tuttavia, va fatta. Una modesta proposta potrebbe essere quella di adottare un approccio di sperimentalismo incrementalista. Provare cioè a testare delle misure su campioni ridotti ma rappresentativi di account e verificare se funzionano nella direzione desiderata. Ad esempio applicando protocolli di controllo più stringente dell'identità on line e facendolo sapere a chi s'iscrive su un social network. Il semplice avvertimento dell'esistenza di un controllo, modifica le abitudini del profilo in maniera significativa o no? Se sì, il programma può essere ampliato; se no, la strada da seguire dovrà essere un'altra. In questo modo non si dovrebbe rendere immediatamente universale una misura di parziale restrizione della massima libertà. Non prima di aver valutato i suoi costi contro i suoi benefici. Un po' come quando si testa un nuovo protocollo medico. Senza clava, con razionalità sperimentale.

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