La Nuova Sardegna

Il virus cinese ha educato gli italiani

Marcello Fois
Il virus cinese ha educato gli italiani

Giudizi e pregiudizi - Il commento

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Il caso Coronavirus ci sarà utile. Intanto ci ha dimostrato che grado di fragilità antropologica abbiamo raggiunto. Siamo una popolazione analfabetizzata da anni di pessima televisione, pessima informazione e pessima politica. Siamo gente che ha ridotto il suo senso critico in rapporto a chi urla di più, con la testa in vacanza e la pancia perennemente esposta a qualunque solleticazione. Quante ne abbiamo visto di “pandemie” nel corso della nostra vita? Ma questa ci ha colto indifesi, indeboliti, privi di anticorpi soprattutto sociali. Abbiamo convissuto per troppo tempo con la paura dell’assedio e del nemico alle porte. Abbiamo dato la stura a qualunque obiezione come se tutto, ma proprio tutto, fosse discutibile.

Il caso Coronavirus sarà utile. Ha dimostrato che abbiamo perso mesi a discettare di obbligo vaccinale senza che fosse abbastanza chiaro quanto una stampa in salute, una televisione in salute, una politica in salute avrebbe dovuto proclamare senza ambiguità, e cioè che potevamo permetterci i No-Vax perché, precedentemente, eravamo stati Vax. Servirà eccome questo virus. A spiegarci fino a che punto a furia di “questo lo dice lei”, si sia persa di vista l’autorevolezza di chi sa, di chi ha studiato, di chi ha dedicato la sua vita a specializzarsi, contro l’opinione fatta in casa di chi trova troppo faticoso impegnarsi per conquistarsene una supportata. Servirà a capire fino a che punto si può indebolire una società proclamando che è offensivo e lesivo avere competenze. Una società dove fanno opinione quelli che detestano scientificamente ogni specializzazione, perché propugnano una falsa democrazia dove ognuno può permettersi, e millantare, qualunque capacità. Questo dolore ci sarà assai utile.

Servirà a spiegarci quanto conti essere amministrati da politici “migliori” di noi, gente che si prende la responsabilità di pensare meglio, di guardare oltre, di correre in prima fila, davanti a tutti. Non tristi personaggi che avanzano nascosti nelle retrovie protetti da una massa informe e acefala. Non da amministratori improvvisati guidati dal desiderio di dimostrare quanto sia facile governare in barba a qualunque vocazione e formazione. Questo virus ci ha mostrato cosa significhi contrappasso. Cioè trovarsi a vivere in prima persona quel rifiuto pregiudiziale a cui per inerzia, o per debolezza, o per vigliaccheria, abbiamo sottoposto tanta povera gente in fuga.

Il coronavirus, se non altro, avrà insegnato il significato preciso della parola “profugo” a quei quaranta viaggiatori, che sono tutti noi, espulsi dalle Mauricius perché “italiani” e rimandati a casa propria, nella Patria infetta, dopo essere stati trattati con diffidenza e con repulsione. “Ci hanno trattato da profughi. Uno schifo.” Ha testimoniato uno di loro. Uno schifo anche perché quella parola “profughi” nel nostro triste vocabolario ha finito per rappresentare non tanto quello che significa, ma lo status di nemico, invasore, untore, sporco, indesiderato. Questo contagio, raccontato come epocale, è una metafora della povertà dei nostri narratori, la passione infantile per la tragedia, per lo psicodramma, che attanaglia i toni delle infinite dirette televisive dalle zone rosse, dalle piazze desertificate, dai supermercati stupidamente svuotati. Il nostro virus è la paura, ma siamo stati infettati da untori sociali incapaci di concepire la gravità della loro azione, col tempo verranno eliminati dagli stessi virus che hanno generato, basta resistere: è sempre, e comunque, una questione di anticorpi.

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