Papa Francesco e la pace possibile

Una benedizione per le nostre società, talvolta degradate da tanto egoismo e individualismo. Che vittoria sarà quella che pianterà una bandiera su un cumulo di macerie? - IL COMMENTO
È stata una Pasqua di guerra. Molto diversa dalle altre, anche se ogni Pasqua è in un certo senso unica e irripetibile. La guerra in Ucraina non ne è stata solo lo sfondo, ma l’avvenimento determinante: sta cambiando la storia del secolo, cambiando gli equilibri internazionali e l’economia del pianeta. La guerra ha improvvisamente e tragicamente sconvolto la vita di milioni di persone.
Ha detto una giovane cristiana di Kiev, alcuni giorni dopo l’invasione dell’esercito russo e i primi bombardamenti: «Una settimana fa eravamo gente normale, persone che aiutavano gli altri, e invece oggi siamo noi coloro che devono essere aiutati, la nostra vita dipende dall’aiuto degli altri». In un attimo sparisce la vita di prima, inghiottita da qualcosa di inspiegabile e insensato, e si finisce totalmente in balia di altro e di altri, in una lotta tra la vita e la morte. Il Papa l’ha definita «una pazzia» e nel Messaggio di Pasqua, nella solenne cornice di piazza San Pietro gremita di fedeli, ha affermato: «Abbiamo alle spalle due anni di pandemia che hanno lasciato segni pesanti. Era il momento di uscire insieme dal tunnel, mano nella mano, mettendo insieme le forze e le risorse… E invece stiamo dimostrando che in noi non c’è ancora lo spirito di Gesù, c’è ancora lo spirito di Caino, che guarda Abele non come un fratello, ma come un rivale, e pensa a come eliminarlo». La Domenica delle Palme, aveva implorato una tregua pasquale: «Che vittoria sarà quella che pianterà una bandiera su un cumulo di macerie»? Purtroppo, non è stato ancora ascoltato. In questi giorni abbiamo assistito, al contrario, ad una escalation delle azioni militari e allo stallo dei negoziati.
E tuttavia anche in una Pasqua di guerra si leva l’annuncio gioioso della resurrezione, perché «nulla è impossibile a Dio. Anche far cessare una guerra di cui non si vede la fine». Nel Messaggio Urbi et Orbi il Papa non ha usato parole consolatorie. Si è chiesto se la vittoria sulla morte non sia un’illusione di fronte a tanto dolore: «Troppo sangue abbiamo visto, troppa violenza. Anche i nostri cuori si sono riempiti di paura e di angoscia, mentre tanti nostri fratelli e sorelle si sono dovuti chiudere dentro per difendersi dalle bombe». Ha ripetuto l’ammonimento sul pericolo di assuefazione alla guerra con le parole del Manifesto laico del 1955 firmato da Bertrand Russell e Albert Einstein. Ha manifestato l’urgenza di un movimento per la pace, sulla scia di quel «cantiere aperto a tutti» che Giovanni Paolo II aveva evocato ad Assisi nel 1986, chiedendo a tutte le religioni mondiali di incontrarsi per promuovere la pace. Ha esclamato, come a voler sostenere un movimento di pace che nasce dai cittadini: «Impegniamoci tutti a chiedere a gran voce la pace, dai balconi e per le strade! Pace!». Ha indicato in alcuni gesti concreti i primi segni di resurrezione attorno a noi, come «le porte aperte di tante famiglie e comunità che in tutta Europa accolgono migranti e rifugiati»; definendoli «atti di carità» che diventano «una benedizione per le nostre società, talvolta degradate da tanto egoismo e individualismo». Tanti attendono che una luce rischiari il loro presente, questa luce è la pace. La pace è il sentimento intimo dei popoli: anche nei momenti peggiori di conflitto, la gente misteriosamente attende qualcosa, attende la pace.
Sono anche questi segni che fanno dire con il Papa che «la pace è sempre possibile, la pace è doverosa, la pace è primaria responsabilità di tutti».