La Nuova Sardegna

Oristano

Unità speciali a domicilio, solo tre medici al lavoro

di Eleonora Caddeo
Unità speciali a domicilio, solo tre medici al lavoro

Il turno per seguire i pazienti covid non ricoverati coperto da un unico dottore Pronto soccorso ancora affollato di contagiati. Quindici assistiti con l’ossigeno

04 novembre 2020
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ORISTANO. Tre medici volontari per 150mila potenziali pazienti. Una sproporzione con cui la sanità oristanese deve fare i conti visto che quello è il bacino di residenti dei tre distretti socio-sanitari della provincia, quelli di Oristano, Ales-Terralba e Ghilarza-Bosa. I numeri parlano da soli in merito alla situazione che si trova a fronteggiare la sola Unità speciale di continuità assistenziale (Usca) attivata sul territorio per l’emergenza legata al covid, la cui forza lavoro è di tre medici che per scelta volontaria si sono resi disponibili a questa attività.

A ben guardare quei numeri sono ancora più striminziti perché poi bisogna fare i conti con le funzioni e i turni che ciascuno dei tre può svolgere. Un medico infatti deve seguire il front-office telefonico con l’utenza, mentre gli altri due devono alternarsi tra i turni di mattina e sera. Gli infermieri, che prima erano in forza all’Unità, ora sono stati precettati per i tamponi, per cui la loro disponibilità è a chiamata e quando possibile in base alla mole di lavoro e ai turni per i tamponi.

La sola Usca attiva oggi è quella del distretto di Ales-Terralba, le restanti due che dovevano essere attivate già mesi fa per svolgere il compito di unità di gestione e monitoraggio domiciliare dei pazienti positivi che non necessitano di cure ospedaliere o che sono stati appena dimessi, non sono operative. Ciò significa prima di tutto che le persone contagiate che sono in cura domiciliare o che sono state dimesse dopo cure ospedaliere, possono contare su un solo medico per ciascun turno di lavoro. E anche qualora venisse attivato un albergo per ospitare i positivi asintomatici o con sintomi lievi, che però non posso restare nella proprie abitazioni per evitare il contagio familiare, la struttura e i pazienti lì alloggiati dovrebbero venire seguiti dalla stessa unica unità speciale. Con un carico di lavoro che rischia di diventare ancora meno sostenibile.

Il problema non si esaurisce con la gestione dei pazienti, ma si intreccia con la procedura di dimissione dei pazienti contagiati e ricoverati. L’iter burocratico per le dimissioni di questi ultimi è molto lungo e non può prescindere dal coordinamento con l’Usca che deve prendere in carico i pazienti per monitorarli nel decorso domiciliare della malattia. Solo lo scorso fine settimana, i medici del San Martino, non riuscendo a mettersi in contatto con l’Usca non sono riusciti a dimettere uno dei due pazienti che attendeva il rientro a casa. Una situazione assurda, per cui da un lato sono facilmente comprensibili i limiti umani che un équipe di tre medici possa incontrare nella gestione di un bacino di utenza così vasto, e dall’altro è comprensibile il disservizio creato ai pazienti e all’ospedale San Martino che, oltre alle difficile gestione dell’emergenza, si trova a dover seguire una burocrazia che ingolfa personale e letti di degenza.

Tutto questo mentre il pronto soccorso del San Martino, ormai secondo reparto Covid, si trova impigliato a sua volta nelle maglie dei contagi. Ieri era occupato da diciassette pazienti, di cui quindici con necessità della terapia dell'ossigeno e nove che passano la degenza in barella, divisi tra stanze di visita e corridoi. Lo scoramento dei pazienti condiviso con personale medico e paramedico che, nonostante tutte le difficoltà, si spende notte e giorno, con turni massacranti, per dare il proprio contributo nel combattere la pandemia e che, paradossalmente, sembrano a loro volta abbandonati dalla gestione del sistema sanitario locale.

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