La Nuova Sardegna

COMMENTI & OPINIONILe schegge di un terrore cieco nate nella polveriera del Caucaso

Renzo Guolo

Non dialogando con i leader ceceni, Putin e Medvedev hanno aperto le porte alle frange estremiste vicine al terrorismo

26 gennaio 2011
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L’attentato all’aeroporto di Mosca sembra portare alla pista caucasica. Si tratti, come spesso è accaduto, di ceceni, oppure di daghestani o inguscezi, e’ quasi sempre dalla Montagna di Babele, che sono arrivati i colpi più duri scambiati, sul suolo russo, nella guerra asimmetrica tra islamisti radicali e il Cremlino. Se la matrice fosse confermata, si tratterebbe del decimo attentato o azione, effettuate da gruppi caucasici in poco più di un decennio.

Una strategia del terrore che ha provocato oltre trecento vittime e più di cinquecento feriti tra i moscoviti. Una contabilità del tutto parziale, che non tiene conto delle migliaia di vittime registrate in Cecenia durante i lunghi anni di durissima guerra, un teatro bellico in cui le truppe di Mosca, non solo a Grozny, non sono certo andate per il sottile.

Spesso gli attentati moscoviti sono stati commessi dalle “vedove nere”, mogli, sorelle, figlie di mujahidin caduti in battaglia e destinate a immolarsi per vendicare i loro cari caduti: come se, senza maschi di famiglia, le loro vite non contassero più e la necessità di evitare il sacrificio di altri maschi combattenti le obbligasse a immolarsi. Ottenendo il duplice obiettivo di infliggere perdite e paura al nemico e ricomporre, sullo smembramento di quello femminile, l’arcaico corpo sociale maschile caucasico.

Si vedrà, una volta sgomberata la tragica scena di Domedovo, se anche in questo caso siano state coinvolte ancora una volta delle “vedove nere”. Quanto al gruppo che ha eseguito l’azione, potrebbe trattarsi dell’ala jihadista del separatismo ceceno. La guerriglia ha, infatti, due anime: una islamonazionalista, che punta innanzitutto a colpire il governo filorusso di Kadyrov e attaccare obiettivi militari in loco; l’altra, che fa capo a Doku Umarov, leader dell’autoproclamato Emirato islamico del Caucaso che manifesta una certa affinità con l’ideologia del jihad globale di matrice qaedista, deciso a portare gli attacchi nel cuore della Russia.

Simpatia, quest’ultima, che ha condotto a un duro confronto all’interno degli stessi gruppi che ruotano attorno a Umarov e provocato l’abbandono di alcuni comandanti militari, figure chiave in ambienti in cui i legami sono quasi sempre clanici, transitati tra gli islamonazionalisti. Più volte i russi avevano dato per morto Umarov, ma la primula verde del Caucaso pare sempre essere sfuggita alla caccia dei reparti speciali del FSB. Un attentato che condurrà a una nuova stretta repressiva. Il presidente Medvev, senza dubbio con il pieno consenso di Putin, ha affermato che occorre instaurare un “regime speciale per garantire la sicurezza”.

L’inasprimento di quella linea “brutale” che Medvedev aveva già annunciato in primavera dopo gli attentati a Mosca e a Kiziliar, nel Daghestan. Alla quale il presidente, per “addolcire” le critiche, non solo interne, aveva affiancato una strategia in cinque punti che, nell’intento del Cremlino, doveva dividere il campo nemico, favorire la resa e il reinserimento degli insorti, sostenere lo sviluppo economico della regione, e, all’insegna di uno Stato etico, promuovere “la moralità e la spiritualità” dei popoli caucasici del Nord.

Ma anche questo tentativo, come già i precedenti, è andato a vuoto. La guerra continua. Favorita anche dagli errori del Cremlino che, in passato, non ha considerato interlocutori leader ceceni come Doudaev o Mashkadov; spalancando così le porte a personaggi come Umarov, e altri che seguiranno, fautori di un islamismo radicale sempre più ideologizzato e filoqaedista. I frutti di questa miope scelta sono, purtroppo, visibili tra i corpi carbonizzati di Domedovo.
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