La Nuova Sardegna

Francesco Cossiga un politico da scoprire che molti dimenticano

Pasquale Chessa
I funerali di Francesco Cossiga lo scorso anno nella chiesa di S. Giuseppe Sopra, il presidente emerito della Repubblica Sotto, la tomba nel cimitero di Sassari
I funerali di Francesco Cossiga lo scorso anno nella chiesa di S. Giuseppe Sopra, il presidente emerito della Repubblica Sotto, la tomba nel cimitero di Sassari

Sotto il silenzio il primo anniversario della morte del presidente emerito della Repubblica

17 agosto 2011
6 MINUTI DI LETTURA





SASSARI. Un anno fa, il 17 agosto 2010 moriva a Roma Francesco Cossiga, il politico sassarese più celebre nella storia italiana del dopoguerra. Parlamentare, ministro, presidente del Consiglio e presidente della Repubblica, «picconatore», polemista imprevedibile, amato e contestato. Insomma una figura unica nella storia repubblicana. Con queste premesse ci si sarebbe aspettato che, oggi, a un anno dalla scomparsa un fiorire di cerimonie, convegni e manifestazioni per ricordarlo. E invece nulla. Nè a Sassari, nè a Cagliari o a Roma. L'unica cerimonia per il presidente emerito della Repubblica in Alto Adige, in una manifestazione che lo ricorda insieme alla pasionaria separatista altoatesina Eva Klotz.

«Sono stato il più giovane deputato, il più giovane sottosegretario e ministro, il più giovane presidente del consiglio, del senato e della repubblica e anche il più giovane presidente emerito...»: celiava Francesco Cossiga sottolineando immancabilmente, intervista dopo intervista, che tutte le tappe del più invidiabile cursus honorum della storia repubblicana erano dovute al gioco del caso e della necessità: ogni volta cioè che serviva nominare qualcuno che non contasse granchè, in attesa che i veri potenti si liberassero dei lacci incrociati, le contingenze avevano privilegiato sempre proprio lui. Veniva voglia di non credergli! E invece c'è sempre stata una verità dietro tutte le sue parole. Una verità che adesso, a un anno dalla sua morte, già tocca alla storia cominciare a cercare. La nascita della associazione intitolata a suo nome, voluta dai figli Giuseppe e Anna Maria, primo passo per una Fondazione Cossiga, segna il passaggio cruciale di questo percorso che lo stesso Cossiga, in qualche modo, aveva già predisposto.

L'archivio consentirà invece di ricostruire la fase terminale di quel tempo che si potrebbe chiamare Età democristiana. Un tempo di cui fu protagonista, sempre. Il rapimento di Aldo Moro con l'esito tragico della fermezza, i missili a Comiso per bilanciare lo schieramento sovietico, il successo della lotta al terrorismo con una legislazione adeguata alle regole del diritto, il disvelamento della struttura Nato denominata Gladio... E ancora e soprattutto: la trasformazione radicale del ruolo del Quirinale nella vita politica italiana: il successo dell'azione politica di garanzia di Giorgio Napolitano non sarebbe pensabile oggi senza le «esternazioni» di Cossiga presidente ieri.

C'era in Cossiga un'idea grande di Italia che spiegava con il fatto che i sardi sono italiani per scelta, con un atto di volontà. Il figlio Giuseppe squarciando per un attimo un impenetrabile privato, ha ricordato che a casa, nelle discussioni a tavola, il più italiano della famiglia era il padre. Assume allora ancora più importanza quell'idea nazionalitaria che Cossiga ha lasciato con il suo progetto di un'autonomia della «nazione sarda» sul modello della Catalogna.

Fondata è l'impressione che. scomparso dalla cronaca, la storia ci restituirà un nuovo Cossiga, quel Cossiga che in qualche modo lui stesso aveva contribuito a far dimenticare. Uomo totus politicus, per dire che tutta la sua biografia è contenuta dalla politica, per la politica Cossiga era dotato di «orecchio assoluto», come si dice per i musicisti nati per la musica.

Prima di chiudersi nel doloroso silenzio terreno con il quale ha voluto annunciare il passaggio verso più incommensurabili silenzi nei quali fermamente credeva, in una delle ultime discussioni, spesso turbolente per la foga che metteva nel suo ragionare politico, questa capacità di antivedere gli eventi fu esibita con lucida franchezza.

Ecco: Berlusconi, ragionava Cossiga, se non trova la forza di imporre nuove elezioni politiche in tempi brevi, proprio perchè le ha vinte da poco, per far eleggere il parlamento che domani voterà alla scadenza del mandato il successore di Giorgio Napolitano, di fronte alle turbolenze economiche che prima o poi travaglieranno l'economia italiana, sarà "cucinato" a fuoco lento dalle crisi ricorrenti della sua stessa maggioranza. E aggiungeva profetico, facendo vibrare il labbro per avvisare che stava per dirla grossa: per il berlusconismo le tasse avranno lo stesso effetto che ebbe la guerra per il fascismo. Dopo aver per decenni predicato la vittoria, il consenso a Mussolini non poteva reggere le crude verità della sconfitta.

Poi rideva di cuore, persino compiaciuto, se gli si faceva notare anche per prenderlo un po' in giro che, da come parlava, si aveva l'impressione considerasse i successori alle cariche che aveva occupato alla stregua di usurpatori. Non perché si considerasse un grande della politica. La tentazione di autodefinirsi «nano» lo attraeva, quasi a scontare il peccato connaturato a una certa idea di sé che lo ha sempre tormentato. Un nano però, che aveva avuto la fortuna di salire sulle spalle dei veri giganti che l'avevano preceduto, citando il celebre aforisma di Isaac Newton. C'era in lui, infatti, la consapevolezza di aver fatto parte di quella classe dirigente che aveva rifondato l'Italia. Il tempo che chiamava l'Età democristiana, grossomodo fra il 42 e il 92, che in sede storica preferiva al concetto di Prima repubblica, non era riferita solo ai cattolici al potere, da De Gasperi a Moro, ma contemplava il ruolo decisivo dei comunisti, per dire da Togliatti a Berlinguer, della cultura di opposizione da Pasolini a Sciascia... E da ultimo anche dei socialisti di Bettino Craxi. E c'entrava anche Celentano, che gli piaceva non poco: lo considerava un suo ammiratore. Vanità del potere! Un peccato a cui Cossiga non ha saputo mai resistere.

Seppure dietro ci fosse la consapevole strategia di occupare le prime pagine di tutti i giornali senza possederne nessuno, con una conoscenza intrinseca del sistema dell'informazione politica in Italia, quell'attitudine alla battuta feroce, quell'inclinazione per l'insulto spietato, quell'uso spregiudicato delle verità più indicibili, rimanda al suo carattere profondamente sassarese che ha sempre conservato. Ho spesso pensato che ne facesse un uso premeditato per rendere più sopportabili, assumendo senza paura di farsi male il ruolo del folle scespiriano, le verità che gli premeva far diventare dominio condiviso di tutta l'opinione pubblica. Anche di chi non gli credeva.

Per lui così sapiente, abile e persino sfrontato nell'aggiustare la cronaca e la storia, il problema della verità, quella «vera» sottolineava, andava insieme alla sua natura di credente, cattolico romano. I profondi e costanti rapporti con gli ultimi due pontefici, in gran parte ancora da illuminare, non fanno parte di quella vanità che trasfigura la politica in potere. Come racconta la vicenda che ha portato alla proclamazione di Thomas More «santo protettore dei politici» alla fine del 2000. Si sapeva che era stato il suo intervento risolutivo presso Wojtyla a realizzare un'idea, datata 1991 e attribuita al ministro cattolico venezuelano Hilarion Cardozo. Compulsando le carte dell'archivio Cossiga per uno studio in fieri, invece si è scoperta una lettera datata 1990, su carta semplicemente intestata «Professor Avvocato Francesco Cossiga», nella quale in forma privatissima il presidente della Repubblica italiana metteva a parte del progetto monsignor Àlvaro del Portillo, prelato dell'Opus Dei.

Per Cossiga il Lord cancelliere di Enrico VIII fatto condannare a morte perché si era schierato col papa quando il re d'Inghilterra aveva deciso di calpestare ogni regola pur di far diventare regina Anna Bolena, fu un uomo del tempo. Il fatto che Tommaso Moro sia stato travolto dalla storia conferma quanto la sua vicenda politica fosse fondata, per dare un senso umano al potere, sul primato della coscienza. È nella coscienza personale infatti il fondamento laico del primato della politica, pensa Cossiga riflettendo appunto su More in contrasto con Machiavelli che, al contrario, metteva in guardia dal «tener conto» della «coscienza» nelle Istorie fiorentine.

Questione di accenti. E l'accento sulla coscienza individuale è per Cossiga cruciale, profondamente vissuto tanto nel fare come nel pensare. E nel credere. Coscienza e Verità infatti si legittimano specularmente. In un continuum nel quale la fine della storia non finisce mai.
In Primo Piano
Tribunale

Sassari, morti di covid a Casa Serena: due rinvii a giudizio

di Nadia Cossu
Le nostre iniziative