La Nuova Sardegna

L’avvocato garante trattava e pagava le forniture di droga

di Mauro Lissia
L’avvocato garante trattava e pagava le forniture di droga

Cagliari, l’arresto di Corrado Altea non ha destato stupore Nei guai negli anni Novanta per un pacco di cocaina in auto

11 giugno 2013
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CAGLIARI. L’avvocato della banda è lui, Corrado Altea. A leggere le carte del procedimento si muove per conto di Graziano Mesina e Gigino Milia, capofila delle due inchieste parallele che hanno condotto a ventisei arresti. Va a Milano a saldare conti per grosse partite di eroina, tratta coi calabresi, intrattiene rapporti indiretti col trafficante albanese Kastriot Lukaj. Si fa persino nominare difensore dello spacciatore cagliaritano Antonio Mascia per potergli parlare in via riservata, in carcere, e scoprire dov’è che ha nascosto quattro chili di droga. Arriva a proporre all’ergastolano di Orgosolo un canale per trattare col cartello colombiano. Sessantaquattro anni, originario di Arbus, abbigliamento stazzonato e parlata essenziale, Altea era finito nei guai già ai primi anni novanta: condannato per resistenza a pubblico ufficiale. Più avanti nel bagagliaio dell’auto gli avevano trovato un pacco di cocaina. «Me l’hanno messa» si difese, vaneggiando complotti orditi nelle alte sfere della magistratura. Si dice che a soccorrerlo sia stato un ufficiale d’alto grado, che allora contava. Comunque ne uscì assolto e riprese la carriera di penalista solitario, con un fugace ritorno alla notorietà quando in pieno caso Lombardini diede assistenza legale ad Alberto Rilla, magistrato in aperto contrasto coi colleghi della Procura. Era il 1998. Negli anni seguenti di Altea s’erano perse le tracce. Solo apparizioni saltuarie nei tribunali, processi insignificanti. Fino all’arresto di ieri, che al palazzo di giustizia non ha sorpreso nessuno.

Eppure dovrebbe stupire: un avvocato, per quanto discusso, al centro di un traffico internazionale di droghe, dove compaiono o ricompaiono nomi e volti di un passato senza gloria. Nella sterminata sequenza di conversazioni intercettate dai carabinieri per conto della Dda cagliaritana il nome di Altea non c’è, ma la sua presenza è costante. Un filo diretto con lo stagionato spacciatore Gigino Milia, che lo chiama con l”utenza cinese” di un certo Zhao Xiaobin ma poi lo mette in contatto diretto con Mesina. Dialoghi dove si parla di vitelli, macchine, cagnolini, appartamenti e soprattutto di foraggio sperando con incredibile ingenuità che la Dda non capisca. Altea dovrebbe lavorare tra codici e fascicoli, la precisissima ordinanza firmata dal gip Giorgio Altieri lo rapporta senza incertezze alle due bande capeggiate da Mesina e Milia, che a Cagliari si muovono soprattutto a Borgo Sant’Elia, regno protetto dei fratelli Guido e Daniele Brignone, piazzaforte dello spaccio dove l’ultimo erede del banditismo vintage organizza una spedizione punitiva finita col sequestro di un furgone, quello di Enrico Fois, semplicemente Vinicio per tutti i frequentatori dell’ambiente.

Pagina dopo pagina, la ricostruzione del procuratore aggiunto Gilberto Ganassi e la versione rivisitata del giudice Altieri descrivono l’attempato legale di Arbus come l’elemento d’incontro tra il mondo di Mesina, tutto Kalashnikov ed esibizioni postmuscolari, con quello dello spaccio truce della Cagliari criminale, dove Milia («il vecchio» per Grazianeddu) ritrova lo smalto dei bei tempi e tratta con disinvoltura, persino al telefono cellulare, chili di stupefacenti da far girare nelle piazze del capoluogo. Disponibile fino a infilarsi mani e piedi in un associazione a delinquere, Altea interpreta - sono parole del giudice Altieri - un «ruolo duttile» e si presta «strumentalizzando la propria professione, a svolgere su ordini di Milia incarichi di corriere» portando a destinazione i soldi per pagare gli acquisti delle droghe. Per il magistrato è sempre Altea a fare «da raccordo con altri membri dell’organizzazione» incontrando calabresi e lavorando per conto terzi alla ricerca di nuovi canali di approvvigionamento. Quando poi l’avvocato va a trovare Mascia nel carcere di Buoncammino, per tre volte in pochi giorni «non lo fa certo per necessità difensive ma per obbedire a precise direttive di Milia» che l’accompagna al penitenziario «per farsi rivelare all’uscita della casa circondariale, il nascondiglio della droga». Altea insomma si rassegna a sporcarsi le mani e diventa uno fra tutti, il ruolo di legale è accantonato. Taglia corto il giudice Altieri: «Una condotta che è fortemente indicativa dell’accettazione di un ruolo subordinato e quindi di una gerarchia». Ma una gerarchia si configura solo se esiste un’organizzazione, persone associate per commettere reati. Ecco perché la posizione di quello che nei dialoghi telefonici compare come «l’avvocato» è per l’accusa speculare a quella di Mesina, Milia e degli altri tenutari del traffico di stupefacenti. Un avvocato confuso tra i membri di una banda diretta da due personaggi condannati a recitare fino alle soglie del carcere la parte di se stessi. Vicino ai settant’anni, scampato a una condanna, stavolta l’avvocato Altea sembra averla fatta davvero grossa.

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