La Nuova Sardegna

Padre Morittu: ora aiuto anche alcolisti e giocatori

Padre Morittu: ora aiuto anche alcolisti e giocatori

Non solo eroina e cocaina, a S’Aspru le vittime di altre devastanti dipendenze «C’è gente sposata o separata, molti con psicosi maniaco-depressive»

05 agosto 2013
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SILIGO

Antonio, il casaro della comunità di recupero di Mondo X, controlla il formaggio e la ricotta stagionata nello spazio apposito del mini caseificio. Fuori, a metà mattina di questo torrido inizio d'agosto, il caldo è già una presenza scomoda. Siamo a S'Aspru, nell'ampio fabbricato dove vivono i ragazzi affidati a padre Salvatore Morittu. Degli altri trenta ospiti, chi bada all'orto, chi alle pecore, chi ai maiali, chi ai bovini. Il lavoro, oggi più che mai, rappresenta una delle vie maestre per il recupero. Di questo e di altro parliamo con lui, il frate dei miracoli, bonorvese doc nel senso migliore del termine, compreso quello della lingua materna che parla in modo da essere facilmente distinguibile come berriti-cultzu (il nomignolo affettuoso riservato ai bonorvesi perché nel costume tradizionale hanno un copricapo meno lungo rispetto alle berritas degli altri paesi sardi). Il dialogo parte dalle novità sul fronte della lotta alle tossicodipendenze.

Quadro mutato, dunque, ma come e perché?

«Prima era l'eroina, oggi resiste ancora l'eroina ma con molta cocaina, molto alcol e droghe di sintesi. In più, le dipendenze senza sostanze. Il botteghino delle scommesse: internet, i videopoker, i giochi d'azzardo. Con tutte le conseguenze che comportano».

La più drammatica?

«I fallimenti economici che trascinano i fallimenti familiari, dramma su dramma».

Perciò varia anche l'età dei pazienti in terapia?

«Sì, e di molto. Non si tratta più soltanto di ragazzini. Oggi abbiamo una fascia di età che si estende dai 19 ai 60 anni. C'è gente sposata e separata e aumenta il numero delle doppie diagnosi. Il venti per cento dei soggetti in terapia soffre anche di psicosi maniaco-depressive, sei su trenta hanno bisogno dello psichiatra. Siamo davanti a un'umanità dolente ma straordinaria».

Quale tra queste dipendenze è più difficile da combattere?

«Senza alcun dubbio l'alcol. Per vari motivi. Intanto, per accertare una dipendenza di questo tipo occorre più tempo. In secondo luogo è molto più anguillosa».

Anguillosa? Un neologismo.

«Non mi viene una parola più adatta. Come un'anguilla, la dipendenza da alcol è nel contempo viscida e sfuggente. Nel passato l'ubriachezza era vissuta in modo completamente diverso. Uno poteva concedersi una trasgressione ogni tanto, soprattutto per le feste, senza però dipendere dal bicchiere di vino. E certamente i fegati di una volta erano meno avvelenati di quelli attuali, con tutte le tossicità di cui siamo circondati. Oggi per vincere la guerra contro l'alcol non esistono le mezze misure né l'indulgenza. L'alcolista non deve più bere assolutamente nulla di alcolico. La maggior parte delle comunità di recupero ha chiuso per eccesso di flessibilità».

Su quali coordinate si viaggia nel cammino del ritorno alla vita?

«La base risiede nell'interiorità di ciascuno, in interiore homine: a un certo punto ci si domanda chi siamo, cosa vogliamo davvero e quanta disponibilità abbiamo a metterci in gioco senza riserve per ottenerlo. E si lavora duro in quella direzione».

Questo per la parte psicologica. E per quella pratica?

«Si punta sul lavoro e sulla cultura. Lavorare ti aiuta a riconsiderare la tua persona anche sul piano della prassi, che però non deve essere mai avulsa dalla spiritualità complessiva della tua personalità di uomo. Essere colti significa anche (ri)conquistare la propria soggettività umana e professionale, la propria libertà di giudizio, la gioia di essere vivi senza dipendere da nessuna sostanza e da nessuna attrazione».

Qual è l'arma più potente in questa tua missione?

«L'amore. Senza amore non esiste progetto realizzabile. La nostra religione parte proprio dall'amore, Dio stesso è amore. Avendo coscienza di averci messo tutto l'amore possibile, oggi mi sento pienamente realizzato come padre. Ricordi che cosa ha detto Papa Francesco alle suore nei primi giorni del suo pontificato? Siate madri, non zitelle».

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