La Nuova Sardegna

Se il teatro ha un cuore sardo: l’epopea dei Fratelli Medas

di GIANNI OLLA
Se il teatro ha un cuore sardo: l’epopea dei Fratelli Medas

Sul palco sale “sa limba”: storia e leggenda della compagnia nata nel 1920

14 luglio 2014
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di GIANNI OLLA

Nei tempi eroici del teatro popolare – da Scarpetta a Totò, passando per il varietà e l’avanspettacolo dei “minori” – si ritardava l’entrata in scena del primo attore per suscitare gli applausi scroscianti del pubblico, che attendeva proprio quell’evento. Autorevoli testimoni sostengono che anche Antonino Medas facesse così, magari con un ombrello che non si apriva e con il quale combatteva come in una comica di Charlie Chaplin, costruendo così un “assolo” adattabile ad ogni testo.

Antonino era il terzo figlio di Anacleto Medas, trasportatore di grano di Guasila, la cui moglie, Rachele Piras, portò in scena, nel 1920, al Politeama Margherita di Cagliari – un teatro bellissimo e imponente, distrutto da un incendio nel 1942 – “Su Bandidori” di Efisio Vincenzo Melis, un classico, si direbbe oggi, del teatro dialettale sardo campidanese. Anacleto era musicista per passione, clarinettista nella banda di Guasila e mandolinista, come Giuseppe Anedda, cagliaritano di Stampace – uno dei maggiori interpreti internazionali dello strumento – applaudito a scena aperta da Igor Stravinsky. Le passioni del nonno hanno certamente influenzato il nipote Giacomo, figlio di Antonino, attualmente violista, docente al Conservatorio di Cagliari, direttore d’orchestra e organizzatore di festival musicali di buona caratura. Come Antonino, però, anche gli altri figli di Anacleto – Francesco, Plinio, Totoi, Emma, Mario, Maria Rosaria – avranno come punto di riferimento la madre, e, nel secondo dopoguerra, dopo aver trovato un mestiere normale e forse noioso, che però dava loro da vivere, si dedicarono al teatro. Collaborarono regolarmente alle trasmissioni di Radio Sardegna – con la registrazione delle commedie “sarde” diventarono quasi dei divi – ed ebbero il loro momento di gloria nazionale, partecipando, nel 1955, alla celebre trasmissione radiofonica “Il Campanile d’oro”, condotta dal giovane Enzo Tortora. Si trattava di una sfida canora e teatrale tra le diverse regioni italiane: la Sardegna dei Medas arrivò in finale, ma fu sconfitta dalla Sicilia. A Guasila e in tutto il Campidano ci furono vibrate proteste, per i presunti brogli siciliani (si votava con delle cartoline postali), che confermarono l’essenza “campanilistica” dell’Italia.

Nel 1962 nasceva la “Compagnia del Teatro Sardo Fratelli Medas”. La loro base fu il teatro parrocchiale del convento di San Mauro, nel quartiere di Villanova. Il repertorio, a parte alcuni varietà costruiti con “gag” raccolte in tutto il Campidano, era ormai consolidato: oltre a “Su Bandidori”, comprendeva il celeberrimo “Ziu Paddori” dello stesso Melis, archetipo del campagnolo incolto, apparentemente ingenuo (scarpe grosse e cervello fino), capace di giostrarsi nella modernità novecentesca, “Sa professoressa”, “Basciura” e “S’urtima Xena” di Garau, “Bellu Schesc’è dottori” di Emanuele Pili, ambientato a Cagliari nel mondo già borghese dei “contaballe” e delle signorine di dubbia reputazione.

Nonostante gli spettatori fossero sempre numerosi, quegli spettacoli non furono quasi mai “rubricati” nelle terze pagine d. ei quotidiani: ci si accontentava della cronaca che annunciava gli orari degli spettacoli. È anche difficile ipotizzare che quel pubblico potesse comprendere la borghesia colta e gli studenti che affollavano, nello stesso periodo, le grandi stagioni del Teatro Massimo in cui si poteva assistere alle performance di Vittorio Gassman o di Tino Buazelli. Nel decennio successivo la compagnia si modernizzerà: seguendo i tempi nuovi cercherà un regista. Ne troverà due. Il primo sarà Antonio Cara, già documentarista filmico e appassionato di teatro popolare. Il secondo Enzo Parodo, che si era fatto le ossa, dieci anni prima, con Pier Franco Zappareddu. Cara impose una riscrittura drammaturgica dei testi – ad esempio eliminò le lungaggini descrittive del mondo contadino presenti nelle commedie di Garau – ed una disciplina scenica, cioè proprio l’eliminazione degli “assolo” fuori testo. Antonino Medas, capo comico, soffriva certo per la perdita del suo indiscusso carisma, ma si adattò diventando un attore e abbandonando ogni “guitteria” apparentemente connaturata a quel teatro.

Rimarrà memorabile la breve stagione che si terrà al Massimo, prima della sua chiusura, nel 1981. Verranno portati in scena “S’urtima xena” e “Sa professoressa”, “Su Bandidori”, “Bellu Schesc’e dottori” e “L’onorevole a Campoealiga”, anche questo di Melis. In tutte le repliche, il vecchio teatro, con i suoi duemila posti, sarà sempre pieno. Enzo Parodo porterà Antonino e Mario, fondatori di una nuova compagnia, “I Medas”, nelle tv private e, successivamente, in Rai. Modernizzò ulteriormente il repertorio, cercando di ritagliare dalle opere tradizionali, dei monologhi o degli atti unici che sfruttino le peculiarità dei singoli attori, soprattutto di Antonino e successivamente di Mario, l’ultimo dei fratelli Medas. Intanto, in Sardegna, non solo crescevano, nei paesi – e non solo campidanesi – le compagnie di teatro dialettale, ma si affacciavano i primi lampi del cinema finzionale diretto spesso da registi locali. Già nel 1981 Antonino interpreterà due film, “Sa Jana”, di Massimo Pupillo, girato nelle peschiere di Cabras, e “Caccia grossa” di Raffaele di Palma.

Accanto a lui, ci saranno, anche in altre pellicole, la sorella Emma, e il fratello Mario, l’ultimo dei fratelli Medas, scomparso di recente, lasciando il testimone al figlio Gian Luca, che con la sua nuova compagnia “Figli d’arte Medas”, è tornato a Guasila, per gestire un teatro ricavato dal vecchio Monte Granatico ristrutturato. Ma senza togliere gloria ai tanti fratelli, sorelle e nipoti Medas, Antonino, resterà un attore unico, a cui l’esperienza e la frequentazione di registi, anche televisivi e cinematografici, aveva fatto acquisire la celebre “arte del sottrarre”, cioè la semplicità recitativa, la gestualità minima, lo sguardo, il sorriso dubbioso. Il suo film più riuscito è purtroppo l’ultimo: lo girerà, nel 1993, la sassarese Maria Teresa Camoglio, ispirandosi alla celebre autobiografia della Deledda, “Cosima”, riambientata al presente. Antonino compare nel ruolo del fattore, custode di un giovane, fratello della protagonista, che ha problemi di droga. Il film è di produzione tedesca, e proprio in Germania, si nota anche quest’anziano attore, che pare “realisticamente preso dalla strada” alla maniera di De Sica. Invece Antonino, che morirà tre anni dopo, è stato un vero attore di scuola.

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