«Quell’isola magnifica di cui negli anni ‘80 ci siamo innamorati»
ORISTANO. Ci sono atleti che con il proprio stile su un campo da gioco o su una pista, dicono molto del proprio carattere e delle proprie attitudini al di fuori di quel campo o di quella pista....
ORISTANO. Ci sono atleti che con il proprio stile su un campo da gioco o su una pista, dicono molto del proprio carattere e delle proprie attitudini al di fuori di quel campo o di quella pista. Adriano Panatta era uno di questi. Con la sua classe cristallina, con quelle movenze di una indolente eleganza, Panatta era il prototipo di giocatore di tennis moderno. Di certo per alcune caratteristiche tecniche, un po' meno per l'applicazione negli allenamenti. Era uno che, quando stava in campo, divertiva. Più avanti, da commentatore sportivo (memorabili alcune sue cronache con Galeazzi), da opinionista televisivo o da semplice ospite, Panatta ha confermato questa attitudine a "essere divertente". E, cosa non secondaria, ha sempre avuto l'aria di uno che si sapeva divertire e che amava divertirsi. Il libro uscito per Mondadori col titolo: "Lei non sa chi eravamo noi", "con la canagliesca partecipazione" (si legge in copertina) di Paolo Villaggio, è insieme un ritratto di uno degli atleti italiani più noti, del tennista azzurro più forte di tutti i tempi (anche se Pietrangeli non è d'accordo), ma è anche il ritratto di una Sardegna che, in parte non c'è più. Il libro racconta le gesta di Panatta e Villaggio, oltre che di Ugo Tognazzi, durante vacanze spassose e spensierate. Gran parte della narrazione è ambientata in Sardegna. L'avventura parte da Forte dei Marmi, tocca la Corsica e da lì la Sardegna. Prima Budelli e poi Porto Rotondo, attraverso una galleria di personaggi, luoghi, persino sapori e odori, che tracciano un ritratto di quella parte di Sardegna dei primi anni '80. Con un pizzico di nostalgia per l'isola che fu anche di De André (si ricorda, con affetto e ammirazione la genesi sofferta di un capolavoro come Amico fragile) e un pugno di insofferenza per i nuovi ricchi che si sono affacciati a queste latitudini. Filo conduttore: il tennis. Ma anche il cinema. E, soprattutto, la natura umana. La scoperta dei dettagli è riservata a chi vorrà leggere "Lei non sa chi eravamo noi".
Panatta, ma chi eravate veramente?
«Semplicemente quelli che vengono raccontati nel libro. Un gruppo di amici che, quando Paolo e Ugo non giravano film e quando io non giocavo, si incontravano e si divertivano. Era un periodo in cui si aveva gran voglia di divertirsi, si aveva voglia di leggerezza. Si veniva da anni bui, dagli anni '70 che erano stati pesanti per le ragioni che conosciamo».
Gran parte del libro è ambientata in Sardegna. La Sardegna vista da Bonifacio, e poi Budelli, Porto Rotondo. Che Sardegna era?
«Era una meraviglia. Le bellezze naturali sono rimaste immutate, ma credo che allora fosse molto diversa da adesso. Gli insediamenti immobiliari le hanno cambiato faccia. Io sono molto legato alla Sardegna, ci ho passato tanti anni. Budelli era una perla a livello mondiale. Allora la si poteva vivere di più, si poteva scendere a terra. C'era questo personaggio, Sergio, che non si sapeva bene se fosse qualcuno mandato al confino o il custode dell'isola. I maleducati c'erano già allora, c'era chi portava via la sabbia rosa e credo che ora sia giustamente diventata un parco naturale».
Dal libro pare di capire che la Sardegna turistica di oggi, quella comprata a pezzi dai magnati russi, non le piace molto. È così?
«Non vengo in Sardegna da 7 o 8 anni. Prima ci andavo anche fuori stagione. Mi è capitato di venirci in giugno per delle gare di off shore, ed era ancora più bella. Ci sono venuto anche per alcuni rally, sempre fuori dai periodi di luglio e agosto. Quello che mi dispiace è che la vostra isola non decolli anche oltre quei due mesi canonici. Eppure avrebbe tutte le caratteristiche per funzionare di più anche durante gli altri mesi dell'anno».
Villaggio, Tognazzi, Gassman, Pietrangeli, lei: dal libro viene fuori una galleria di personaggi di grande spessore. Nostalgia?
«Sì, c'erano dei grandi personaggi che popolavano le estati sarde in quegli anni. Erano anni meravigliosi e non si creda che fosse un posto snob. Era un posto frequentato da gente che aveva scoperto quel territorio meraviglioso e se ne era innamorata. Personalmente ho grande nostalgia delle calette, che conosco praticamente a memoria. Mi dicono sia molto cambiata. L'ultima volta che sono stato a Porto Rotondo stentavo a riconoscerla. Porto Cervo è cambiata meno. Ma io sono sempre stato più affezionato a Porto Rotondo».
E la cucina? Lei incrina un po' il mito di Tognazzi grande chef...
«Sulla cucina devo dire che amo più quella dell'entroterra che quella della costa. Andavo spesso nelle zone interne e le conosco abbastanza. Ma conosco bene un po' tutta l'isola. Dopo gli anni '80 sono stato in altre zone: a Alghero, Stintino, Villasimius, Chia. Una cosa mi colpiva ogni volta che arrivavo nell'isola: quando si apriva il portello dell'aereo si sentiva subito il profumo della macchia mediterranea. Bellissimo».
Ma alla fine, questo slice, come le suggeriva Tognazzi, l'ha migliorato?
«(ride) Ugo millantava competenze che non aveva e che non poteva avere, ma lo faceva soprattutto perché aizzato da Villaggio. Era comunque un modo per divertirci e per prenderci un po' in giro».
Quasi 40 anni dopo Santiago del Cile, le magliette rosse sono tornate protagoniste in una finale di Coppa Davis con la vittoria della Svizzera. Che effetto le ha fatto?
«Mah, il contesto era molto diverso. Fortunatamente, aggiungo. Vedere la Svizzera vincere la Davis mi ha fatto molto piacere. Soprattutto per Federer, che lo meritava. Vedere uno che ha vinto tutto che si commuove ancora per un successo in Davis fa capire quanto questa competizione sia importante. E poi Roger nell'ultima giornata era veramente ingiocabile».
Chiudiamo con una battuta rubata al libro e a un famoso film di Villaggio: "Panatta, batti?"
«No, batti tu!»