La Nuova Sardegna

Spissu: «Nessun controllo sulle spese»

di Mauro Lissia
Spissu: «Nessun controllo sulle spese»

Chiamato come teste, l’ex presidente conferma: gli onorevoli compilavano solo prestampati con le cifre complessive

29 novembre 2014
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CAGLIARI. I controlli sulle spese? Impossibili, ma neppure richiesti. I responsabili dei gruppi politici regionali compilavano un prestampato, annotavano le cifre complessive delle entrate e delle uscite. Infine lo consegnavano all’ufficio di presidenza. Risultato: il documento finiva in un cassetto senza che nessuno potesse o volesse anche solo dare un’occhiata di verifica. Quindi i milioni di euro pubblici passavano dalla cassa del Consiglio regionale alle tasche degli onorevoli in assoluta libertà, privi di qualsiasi sindacato, come se fosse roba loro. Anzi, un controllo c’era. Ma nell’interesse dei gruppi: «I questori – ha spiegato l’ex presidente dell’assemblea sarda Giacomo Spissu, chiamato davanti al tribunale come testimone dalla difesa di Beniamino Scarpa – accertavano se le somme destinate ai gruppi corrispondessero a quanto stabilito». Solo perché non ci fossero disparità di trattamento economico tra gli schieramenti politici, non sia mai che qualcuno trovasse sul proprio conto qualche euro in meno rispetto ad altri.

Tutto qui e si sapeva: fino all’abolizione dei fondi per l’attività dei gruppi, decisa sulla scia delle inchieste giudiziarie e delle conseguenti condanne, il Consiglio regionale era una specie di bancomat a disposizione dei consiglieri. Spissu - che è indagato a sua volta nell’inchiesta-bis con l’accusa di peculato aggravato - è stato chiaro: «Come presidente non mi sono mai occupato di rendicontazioni – ha spiegato, rispondendo alle domande dell’avvocato Silvio Piras e a quelle del pm Marco Cocco – e comunque non avevo alcuna possibilità di verificare spesa per spesa. Scarpa? Non potevo sapere come utilizzasse i fondi del gruppo misto, gli uffici si limitavano a ricevere i prestampati con le somme complessive. Se per ipotesi un consigliere avesse speso denaro in un night club, sarebbe stato impossibile accertarlo, dai documenti non poteva risultare». Quindi niente: solo una rendicontazione generica e complessiva, cifre anonime buttate là a certificare un flusso di denaro ma non la direzione che aveva preso. D’altronde l’ormai famosa delibera del 1993, una sorta di regolamento per le spese dei gruppi consiliari, non prevedeva rendiconti: «C’era solo un controllo contabile – ha confermato Mariangela Sedda, attuale segretaria generale del consiglio regionale – ma nessuna verifica voce di spesa per voce di spesa». Sulla stessa linea la funzionaria dei gruppi Mara Lai: «Il consiglio regionale non voleva alcuna documentazione allegata – ha spiegato al presidente Mauro Grandesso – bastava uno schema delle spese con una relazione. I giustificativi non venivano richiesti».

L’ordinanza e la successiva sentenza di condanna firmata dal gup Cristina Ornano per Adriano Salis, la recente decisione della Corte dei Conti per Silvestro Ladu e le sentenze del riesame indicano chiaramente come non esista alcuna scriminante nella convinzione che quella delibera concedesse una sorta di salvacondotto finanziario ai consiglieri: l’uso improprio e l’appropriazione di denaro pubblico integra comunque il peculato. Finora però il dibattimento pubblico che riguarda i primi diciassette onorevoli ed ex onorevoli - erano diciotto, Giuseppe Giorico è deceduto di recente - va avanti fra testimoni che ripetono tutti la stessa teoria: i rendiconti non erano richiesti. Tutti tranne Ornella Piredda, che ha aperto la strada alle inchieste del pm Cocco denunciando la disinvoltura con la quale venivano distribuiti e spesi i fondi destinati all’attività istituzionale dei gruppi.

Il processo proseguirà il 21 gennaio con l’esame di altri testimoni delle difese.

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