La Nuova Sardegna

La lezione di Sergio Atzeni a 20 anni dalla morte

di Alessandro Cadoni
Lo scrittore cagliaritano Sergio Atzeni
Lo scrittore cagliaritano Sergio Atzeni

Nel 1995 scompariva nel mare di Carloforte lo scrittore cagliaritano autore di “Bellas mariposas”

08 settembre 2015
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Nel 1996, a pochi mesi dalla morte improvvisa di Sergio Atzeni, di cui ricorre in questi giorni il ventesimo anniversario (la data era il 6 settembre 1995), l’editore Sellerio pubblicava «Bellas mariposas», racconto (o, se si vuole, romanzo breve) che, stando alla nota d’apertura, fu scritto nell’estate del 1995, presentato dall’editore palermitano in un volume aperto da un altro racconto, di undici anni prima, «Il demonio è cane bianco». Già l’accostamento di due testi così diversi è bastevole prova dell’apertura di gamma linguistica e tematica d’un autore fuori dalla norma. Se ci pensiamo, l’altro postumo, «Passavamo sulla terra leggeri», uscito nello stesso anno per Mondadori, veniva scritto, grossomodo, negli stessi frangenti, o immediatamente prima.

  • Altri codici

Difficile immaginare due prose più differenti, almeno in apparenza: la prima librata nella costruzione d’un immaginario, nella fondazione di un mito; protesa oltre il recinto di paradigmi identitari che pure – e forse al di là delle intenzioni – contribuisce a rafforzare: scuotendo via, però, gli stereotipi proprio grazie all’innesto fecondo nella corteccia della storia di un’invenzione carica di meraviglia. La seconda, quella di «Bellas mariposas», tutta tesa, invece, all’esplorazione di altri codici, altri toni, quinte metropolitane (già in scritti precedenti, a iniziare dallo smagliante «Il quinto passo è l’addio», Cagliari, sino a quel punto luogo, se non assente, almeno marginale nella narrativa sarda, diveniva protagonista pulsante). «Passavamo sulla terra leggeri» offre una prosa vibrante all’udito, così carica di effetti figurali, giocata su accumulo di anafore ed effetti metrici; si potrebbe dire che «Bellas mariposas» dall’udito, invece, parta, attraverso la registrazione d’un flusso di parole: una sorta di diario parlato di Caterina, dodicenne di Santa Lamenera, quartiere popolare di fantasia in una Cagliari verissima.

  • Tour vorticoso

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Diario di cronologica precisione d’una sola giornata – «il 3 di agosto (…) il giorno dell’ammazzamento di Gigi del quinto piano l’innamorato mio» –, di un tour vorticoso di saliscendi – anche inutili – da un autobus all’altro, una piccola filza d’avventure tra la spiaggia e la città alta, il caseggiato e il quartiere, in compagnia di Luna. Amiche, come sorelle, forse davvero sorelle: son loro le farfalle del titolo. Se hanno ali, son quelle di un’intelligenza scattante, di uno spirito resiliente, capaci di allontanarle dal degrado quotidiano. Dagli uomini, ad esempio, per la maggior parte vili e violenti; Caterina presenta un piccolo campionario di orrori: dal padre nullafacente e onanista al fratello Tonio, dalla cui intenzione di uccidere Gigi prende piede l’azione narrata.

  • Il linguaggio

Ma torniamo al nodo del linguaggio, alle particolarità stilistiche che dividono i due ultimi scritti di Atzeni. Caterina parla a ruota libera, rivolta a un “tu” che soltanto alla fine scopriremo essere colui che, con tutta probabilità, trascrive le sue parole («questa storia la racconto a te che (…) dicono che sei buono a raccontare e scrivere»). Ecco, una trascrizione, un’immersione mimetica nel linguaggio popolare e nello slang giovanilistico della Cagliari degli anni Novanta, tra piccola criminalità contemporanea e un vuoto morale alla «Brutti sporchi e cattivi». Ma la mimesi, in più punti, salta, e il racconto si fa ben più complesso di quello che pare. Prendete un brano bellissimo, le due ragazzine al Poetto: «Quando nuoto dimentico casa quartiere futuro mio babbo il mondo», e soprattutto, immediatamente appresso, l’accensione di tono: «Mi piace guizzare sotto il pelo dell’acqua e uscire ogni tanto a respirare e guardare il sole che scintilla sulle ondine di maestrale o abbaglia sulle onde di levante che ti succhiano in basso».

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  • Tinte fiabesche

O, ancor più, il rovesciamento finale che cambia volto al racconto: tornate al quartiere, nella piazza davanti a casa, Caterina e Luna sorvegliano Tonio, sempre intenzionato a uccidere Gigi. Un’apparizione dalle tinte fiabesche, accompagnata in scena dalle preghiere della protagonista, salverà, in diversi sensi, la situazione: «È apparsa (…) Agenore Crocorigas una donna bellissima che danzava (…) otto gatti neri con una macchia bianca attorno all’occhio sinistro balzavano in aria e facevano strane figure attorno alla ballerina». Un finale, questo, di sapore felliniano, tutto nelle corde di Salvatore Mereu, che di «Bellas Mariposas» ha fatto, nel 2012, un importante film che va ad aggiungersi – nella breve e significativa storia degli adattamenti di questo racconto magnifico – allo spettacolo allestito dalla compagnia Egumteatro, splendidamente interpretato da Monica Demuru.

  • Lirica e pulp

Un finale, quello di “Bellas mariposas”,che, sommato al passaggio lirico che ho sopra riportato, ravvicina sorprendentemente il racconto al romanzo, dove pure, in certi tratti, alla prosa lirica si mescolavano passaggi, come dire, “pulp”: il tutto a testimonianza d’un narratore grandissimo ed eclettico, capace di cambiar registro non nel giro di opere diverse ma all’interno della stessa. Dotato, insomma, di quella capacità limpidissima di chi, attraverso l’invenzione, sa dar forma al reale.

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