La Nuova Sardegna

Frankie, una vita in sella con la Sardegna nel cuore

di Enrico Gaviano
Frankie Dettori in sella a Enable vince per la sesta volta l'Arc a Longchamp
Frankie Dettori in sella a Enable vince per la sesta volta l'Arc a Longchamp

Dettori, il più forte fantino di sempre compie oggi 48 anni: «Ho i quattro mori tatuati sul braccio» Un anno di vittorie culminato con il successo straordinario all’Arc de Triomphe

15 dicembre 2018
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SASSARI. I francesi lo chiamano “Le diable”, gli inglesi “The King”. Lui è Frankie Dettori, il più forte fantino in attività. 48 anni compiuti oggi 15 dicembre, una carriera lunga trent’anni a vincere corse di galoppo, in sella ai più prestigiosi cavalli al mondo. Se è vero che è nato a Milano, nelle sue vene scorre sangue sardo e nel cuore si sente profondamente isolano. «Il mio cognome rivela le mie origini – dice con orgoglio – ma se questo non bastasse mi sono anche tatuato i quattro mori sul braccio destro, giusto per chiarire a tutti che la Sardegna è la mia terra».

Come festeggerà il compleanno?

«Stasera c’è un mega party in scuderia. Sia chiaro, non è stato organizzato per me. È la festa per celebrare i successi della Godsen del 2018. Mi sembra un buon modo per spegnere le candeline».

Un anno speciale, in cui sono arrivate altre vittorie strepitose.

«In cima c’è l’Arc de Triomphe. È stata una bella soddisfazione vincere per il secondo anno consecutivo con lo stesso cavallo, la splendida Enable. Prima di me solo altri sette erano riusciti a far doppietta, e l’unico italiano Enrico Camici con il mitico Ribot nel 1955 e nel 1956».

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Che gara è stata? Si è avuta l’impressione che lei abbia dato scacco con grande abilità a Sea of Class, che era fra i favoriti.

«Mah, in verità quando si corre si è impegnati a guardare un solo cavallo, quello che stai montando. Non c’è tempo per altro. Ho fatto la mia corsa, stando coperto il tempo dovuto e lanciando Enable al momento giusto. Sì, ho visto poi che Sea of Class stava recuperando parecchio ma sul palo sono passato prima io».

Restando al 2018 e ad Enable, con lei ha vinto subito dopo anche negli Stati Uniti.

«Sì alla Breeders’ Cup Turf. E anche questo per la mia cavalla è un record, nessuno era riuscito a fare questa doppietta».

Lei in carriera ha vinto oltre 3000 corse, un numero infinito. Si può isolare un successo che le è rimasto nel cuore?

«Difficile scegliere. Mi viene in mente subito il trionfo del 2015 con Golden Horn sempre all’Arc. Battendo la cavalla francese favorita Treve, che puntava alla terza vittoria consecutiva, impresa mai riuscita a nessuno. Quel cavallo oltretutto l’avrei dovuto guidare io a Longchamp nel 2013, invece una caduta da cavallo mi impedì di farlo. Insomma una bella rivincita».

Ma di certo l’impresa a cui è legato di più è l’aver vinto sette gare su sette in una sola riunione ad Ascot nel 1996.

«Beh, quella è davvero una storia fantastica. Ricordo anche i nomi di tutti i cavalli: Wall Street, Diffident, Mark of Esteem, Decorated Hero, Fatefully, Lochangel e Fujiyama Crest. Man mano che si andava avanti la gente impazziva sempre più. Nell’ultima corsa Fujiyama Crest era dato inizialmente 12 a 1, ma prima di partire era sceso a 2 a 1. Un giocatore a inizio riunione puntò l’equivalente di centomila lire sulle mie 7 vittorie guadagnando un miliardo e mezzo. L’ho fatto felice...».

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Parliamo di cavalli. A quale è rimasto più affezionato?

«Potrei dire a tutti. Ma se proprio devo fare qualche nome inizierei con Lammtarra, con cui vinsi il primo Arc nel 1995. Un cavallo fantastico che si ritirò imbattuto. Poi Dubai Millennium con cui ho conquistato a Dubai nel 2001 la corsa più ricca al mondo. E poi ovviamente Fujiyama Crest».

Perché?

«Perché ha vinto la settima corsa di Ascot facendomi fare l’en plein. E poi a lui è legata una bella storia. Seppi qualche anno dopo che era in vendita all’asta in Galles. Sarebbe finito al macello. Invece lo acquistai per 2000 sterline e me lo portai a casa. È morto di vecchiaia».

Torniamo alla terra d’origine di suo padre. L’Arc è considerato un autentico campionato del mondo del galoppo. Quest’anno in pista, insieme a lei, c’erano altri due fantini sardi: Andrea Atzeni su Defoe e Christian Demuro su Neufbos. Sembra che i sardi siano molto quotati.

«Siamo avvantaggiati. Dal punto di vista fisico non siamo altissimi. E poi c’è questo rapporto ancestrale con il cavallo, che risale alla notte dei tempi. Aggiungiamo il carattere forte e testardo. Riusciamo a primeggiare sia negli ippodromi di tutti i tempi che nel palio per antonomasia, quello di Siena».

A proposito di Palio, suo padre da giovane è stato compagno di avventura di “Aceto” Degortes, il re di piazza del Campo.

«Si guadagnavano il pane facendo i camerieri a Milano e in questo modo tenendo viva la loro passione, montare i cavalli».

Papà Gianfranco Dettori ha giocato un ruolo fondamentale nella sua carriera, giusto?

«Devo tutto a lui. Intanto lo ammiro perché è riuscito a emergere da una situazione economica difficile. Nel suo orizzonte c’era la possibilità di fare il minatore, come mio nonno, oppure il manovale. A forza di sacrifici, volontà e orgoglio è diventato un campione dell’ippica. Per me è stato tutto facile: mi ha spedito in Inghilterra a Newmarket, nella scuola migliore per diventare fantino, quella di Cumani».

Tutto facile davvero?

«Insomma, i primi tempi sono stati difficili. Qui a Newmarket, dove vivo ancora, fa freddo d’inverno e non riuscivo ad abituarmi al cibo. Pensavo, ma guarda che porcherie mi tocca buttar giù. Ma parliamo davvero di sciocchezze rispetto a quello che ha dovuto affrontare papà».

Ma lei ha avuto un momento molto difficile in carriera. Nel 2012 è stato squalificato per sei mesi per uso di cocaina ed estromesso dalla scuderia di Al Maktoum, con cui aveva vinto tutto. Come ha fatto a riemergere?

«Con la forza di volontà. La voglia di continuare a correre che poi è la mia ragione di vita. Ti aggrappi con forza per risalire. E ce l’ho fatta. La coca è stato un errore, che non ripeterò mai più».

A Newmarket c’è un ragazzo che vuole seguire le sue orme, Stefano Cherchi, 17 anni, sassarese, che si allena con il trainer Botti. Che ne pensa?

«Lo conosco, lo conosco eccome. Mi sembra uno molto testardo, deciso. Si allena tantissimo. Ovviamente mi gironzola attorno quando mi vede. Mi è stato dietro per sei mesi chiedendomi un frustino. Alla fine gliel’ho regalato. Spero gli porti bene».

Ma invece fra i suoi 5 figli, c’è qualcuno che può seguire le sue orme?

«Vanno tutti a cavallo. Ho tre ragazze, Ella, Mia, Tallulah che mi sembra non siano adatte per le corse. Il maschio più grande, Leo, è alto 1,80 e quindi lasciamo perdere. C’è Rocco, il più piccolo. Per ora monta i pony. Ma per fare qualcosa di serio bisogna che si sacrifichi. Vedremo...»

Lei come Gianfranco Zola è stato insignito dalla Regina Elisabetta dell'onorificenza di Membro dell'Ordine dell'Impero Britannico.

«Con Gianfranco ci conosciamo. Sa che siamo alti uguale? Lui un grande campione. Io avrei voluto fare ugualmente il calciatore. Ma avevo solo la voglia. Mi resta la passione per l’Arsenal e la Juventus. Il Cagliari? Ah, beh, sì. è la squadra della mia terra, ci tengo comunque tantissimo...»

Non ha fatto il calciatore ma per quanto tempo correrà ancora?

«Francamente non lo so. Tre, quattro, cinque anni. Mi godo il momento e la voglia di vincere. Quella è ancora molto forte».
 

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