La Nuova Sardegna

Crisi più dura del marmo, la Baronia ha paura

Paolo Merlini
Crisi più dura del marmo, la Baronia ha paura

Il 2019 è l’annus horribilis: vendite calate del 40 per cento e aziende fallite. In pericolo un migliaio di posti tra gli operai delle cave e i lavoratori dell’indotto

07 novembre 2019
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OROSEI. L’oro della Baronia da qualche tempo splende un po’ meno. Il marmo di Orosei, dopo anni di affermazione sui mercati internazionali, segna il passo: il costo dei trasporti, dell’energia e dell’acqua, le infrastrutture carenti e non ultima la globalizzazione, con i repentini cambiamenti che favoriscono ora una nazione ora un’altra, stanno mettendo in crisi l’industria più fiorente di Orosei, assieme al turismo, capace di dare lavoro a un migliaio di persone. Un duro colpo per gli imprenditori delle cave, che sono i campioni dell’export non solo della provincia di Nuoro, ma dell’intera Sardegna: da qualche decennio i container con all’interno i blocchi di daino o daino reale (questo il nome della pietra locale, ma ormai dappertutto si parla di marmo di Orosei) prendono il mare da Olbia e Cagliari e solcano il Mediterraneo e gli oceani. Destinazione: India, Cina, Arabia Saudita, Medio Oriente, soprattutto, ma anche Brasile, Canada, Stati Uniti. Nei periodi più fortunati dalle cave a sud del paese partivano 300 blocchi al giorno (ciascuno da 1,5 a 2,7 tonnellate, le misure standard).

La crisi. Oggi si parla di un calo del 40 per cento, e la preoccupazione è molto forte, al punto che i maggiori imprenditori, interpellati sulla crisi, rimandano ogni dichiarazione di un paio di mesi, sperando in tempi migliori forse anche con l’aiuto istituzionale. Ma la sofferenza del settore è nei fatti. Basta guardare il portale dei fallimenti del tribunale di Nuoro per scoprire che, soltanto nell’ultimo anno, per quattro aziende è scattata la procedura di fallimento. E la crisi l’hanno messa nero su bianco, poche settimane fa, l’assessore comunale alle Attività produttive e alle cave, Giuseppe Sanna, insieme con il direttore del Consorzio marmo di Orosei, Matteo Carta, in un documento di otto pagine che analizza senza infingimenti la situazione. Il 2019, dopo lustri di floridità, è l’annus horribilis del comparto: «Purtroppo si sta registrando una drastica riduzione della vendita dei blocchi grezzi. Il contenimento delle vendite è in continuo calo e ancora non si può definire il livello della contrazione per compiere una stima sulla reale produzione attuale. Questa crisi impone alle aziende una riduzione della capacità produttiva e di conseguenza un taglio della manodopera». Parole che pesano come macigni, anzi come un blocco di marmo, sul destino dei 500 operai che lavorano a tempo indeterminato nelle cave di Orosei, ai quali si aggiungono altre 500 persone nell’indotto: camionisti, meccanici, tecnici specializzati ma anche amministrativi, interpreti, consulenti del lavoro. Un’industria, composta da una ventina di aziende, con mille addetti e un fatturato di 50 milioni l’anno.

Le prime cave. In una situazione di questo tipo, l’assessore Giuseppe Sanna è l’uomo giusto al posto giusto. Se c’è una persona che sa tutto, ma proprio tutto sul marmo di Orosei è lui. Sessant’anni, sposato con due figli, è figlio d’arte. Viene da una famiglia di scalpellini orunesi che ha fatto storia in provincia di Nuoro. Nel primo ’900, il nonno Francesco era il capomastro dell’impresa Davoli, che a Orune occupava una trentina di operai specializzati nella estrazione del granito. Le lastre che adornano il palazzo delle Poste di Nuoro, ma anche la chiesa della Solitudine dove riposa Grazia Deledda, le ha fatte lui, a punta e mazzetta come si diceva una volta. Il padre di Antonio, Salvatore, ha lasciato la Barbagia per Orosei, quando si capì che il marmo poteva essere una risorsa. Il primo blocco l’ha tagliato lui, nel 1956. Qui la considerano la pietra miliare dello sviluppo per quello che al tempo era uno dei paesi più poveri della Sardegna.

Dal martello al laser. Giuseppe Sanna ha seguito la tradizione di famiglia ad appena tredici anni. Lasciata la scuola, ha cominciato come operaio nella cava del padre, poi si è via via specializzato lavorando per le principali aziende lapidee di Orosei come direttore di cantiere. Consulente richiestissimo, è andato a spiegare come si apre una cava persino in Tibet, poi in Iran. Dodici anni fa ha deciso di dare corpo al suo sogno e ha aperto con il figlio Francesco lo stabilimento Pai, acronimo di pietra artistica internazionale. Ha investito quattro milioni di euro in tecnologie avanzatissime: laser (oggi la pietra si taglia così) e scanner 3d in grado di riprodurre una copia esatta del David di Michelangelo. Le prime commesse facevano ben sperare: il Grand hotel President a Olbia, bagni e arredi di buona parte degli alberghi del gruppo Iti dei fratelli Loi. Dalle sue macchine sono usciti i “tappeti” sardi di marmo di Orosei disegnati da Antonio Marras per il G8 mancato della Maddalena. Ha esportato ovunque, poi le commesse si sono affievolite, sino alla crisi che quest’anno ha portato alla chiusura dell’attività. Quando lo racconta c’è un’evidente amarezza, ma anche la volontà di riprovarci, l’orgoglio di aver messo al sicuro le posizioni contributive dei suoi dipendenti, quaranta nei periodi migliori, prima di soddisfare le banche e risponderne in prima persona. Il figlio Francesco, 31 anni, la quarta generazione di questa stirpe di lavoratori della pietra, ha rotto gli indugi e ha fatto rotta verso Miami per darsi una nuova occasione nell’ormai imperante settore della ristorazione. Ma il padre spera di riportarlo qui, e cominciare insieme un’altra avventura.
 

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