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BASKET

Canestri, pizza e sole nell’estate algherese del piccolo Kobe Bryant

di Andrea Sini
Canestri, pizza e sole nell’estate algherese del piccolo Kobe Bryant

Nel 1984 una lunga vacanza nell’isola insieme alla famiglia. E la prima canotta Lakers era un regalo dell’amico Maurilio

28 gennaio 2020
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SASSARI. La prima canotta dei Los Angeles Lakers mai indossata da Kobe Bryant fu un regalo di un bambino di Alghero. Molti anni prima di vestire i colori gialloviola su tutti i parquet della Nba, la futura leggenda del basket e dello sport mondiale si era fatta benvolere anche sulla Riviera del Corallo. Lasciando tracce e ricordi indelebili.

Tra mito e realtà. Tra le tante storie incredibili che legano all’Italia lo sfortunato campione americano, scomparso domenica a 41 anni in un incidente in elicottero, ce ne sono un paio che riguardano la Sardegna: della sua presenza al torneo di Ploaghe a fine anni Ottanta, al seguito del padre, e dei suoi presunti passaggi più recenti in Costa Smeralda non esistono riscontri certi. Della lunga vacanza algherese di un Kobe bambino, insieme alla sua famiglia, restano invece un intero album di foto, le cartoline e i ricordi vivi di chi visse quell’incontro straordinario.

Quell’estate ad Alghero. È il 1984. La famiglia De Santis, che gestisce la Piconia, uno storico ristorante-pizzeria a due passi dal teatro, un giorno vede varcare la soglia un giovane altissimo, insieme a una donna di una bellezza strepitosa e a tre bambini. «Buongiorno – dice in inglese il turista –. Siamo qua in vacanza e stiamo cercando qualcuno che abbia voglia di fare due tiri a basket, ci hanno detto che i vostri figli giocano in una squadretta». Lui si chiama Joe Bryant, ha appena lasciato la Nba dopo un decennio per trasferirsi nel campionato italiano, a Rieti. Gli altri sono la moglie Pamela, le due figlie e uno scricciolino di 6 anni: è il più vivace di tutta la compagnia, di nome fa Kobe.

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Le sfide alla Mercede. Dai tavoli sbucano fuori tre bambini un po’ più grandicelli: sono i figli del titolare: eccoci, siamo pronti. «Ci facemmo subito avanti – racconta Nadia De Santis, all’epoca undicenne –, io e i miei fratelli Maurilio e Marcello. Li portammo a giocare al campetto dietro la scuola elementare Maria Immacolata, alla Mercede. Siccome eravamo in pochi, convocammo anche una schiera di nostri amichetti algheresi. Io ero l’unica bambina che giocava, perché anche le sorelle di Kobe facevano solo due tiri ogni tanto. Da lì in poi iniziammo a frequentarci quotidianamente, mattina e sera, venivano a mangiare la pizza da noi, poi andavamo a giocare queste partite infinite, con Joe che giocava con noi bambini. Per tanti giorni nessuno di noi ha mai visto il mare, solo il cemento di quel campetto e i suoi canestri sgangherati. E la sera venivano a casa nostra a trascorrere un po’ di tempo. Dormivano in un hotel del centro, si trovarono talmente bene ad Alghero che dopo una decina di giorni decisero di rimandare la partenza e restarono con noi per un’altra settimana».

Una piccola stella. «Kobe aveva solo 6 anni ma aveva già un caratterino niente male – ricorda Marcello De Santis –. Voleva sempre la palla ed era già competitivo. Io ero più grandetto e una volta mi azzardai a stopparlo, prendendomi i rimbrotti di Joe. Tra le nostre famiglie nacque un’amicizia bellissima, nostro padre provò a insegnare a Joe a fare la pizza, mentre noi trascorrevamo il tempo a giocare. Andammo a trovarli a Reggio Emilia, negli anni successivi, ci scambiammo tante cartoline e ci invitarono da loro a Filadelfia. Quando lasciarono Pistoia provammo a convincerli a venire a giocare con la Dinamo».

Una maglia nel destino. Maurilio e Marcello De Santis al campetto indossavano rispettivamente la canotta dei Los Angeles Lakers e dei Philadelphia 76ers, ordinate da un catalogo su una rivista e invidiatissime da tutti i bambini di Alghero. Prima della partenza, la maglia gialloviola di Marcello finì nella finì indosso al piccolo Kobe, che ringraziò per il regalo con un sorriso splendente. «Fu senza dubbio la sua prima maglia dei Lakers – sorride Maurilio –, e ci piace pensare che fu un segno del destino. Oggi siamo tutti molto tristi».

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