La Nuova Sardegna

La rianimatrice sassarese sul fronte del contagio a Parma

di Andrea Massidda
La rianimatrice sassarese sul fronte del contagio a Parma

Simona Silvetti, medico di 33 anni, al lavoro in Emilia nella task force della Protezione civile

08 aprile 2020
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SASSARI. Se questo confronto mondiale con una pandemia molto insidiosa fosse davvero una guerra – come da metafora comune – lei sarebbe a pieno titolo un ufficiale della Brigata Sassari. Con indosso il camice bianco al posto della divisa. Trentatré anni, entusiasmo da vendere e già tanta esperienza nei reparti di Rianimazione e in sala operatoria, il medico Simona Silvetti è infatti nata e cresciuta proprio all’ombra della Fontana di Rosello. E dalla settimana scorsa fa parte della task force di 300 medici selezionata dalla Protezione civile attraverso un bando di sole 24 ore per rafforzare l’assistenza sanitaria nelle zone più critiche del Paese. Una sorta di corpo di élite con una precisa missione: limitare al massimo gli effetti letali del Covid 19. Come destinazione le è toccata Parma. «Dopo la Maturità ho lasciato Sassari per Milano – racconta – dove all’Università del San Raffaele mi sono laureata in Medicina con specializzazione in Anestesia e Rianimazione. Professionalmente ho iniziato con gli adulti all’ospedale San Raffaele, poi sono passata a occuparmi anche di bambini cardiopatici all’ospedale San Donato, lavorando con Giuseppe Pomè, noto e stimato primario di Cardiochirurgia pediatrica che ho seguito al Gaslini di Genova, la mia attuale sede.

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La decisione di fare armi e bagagli per partire al fronte Simona Silvetti l’ha presa senza pensarci troppo. «Ho partecipato al bando perché in questo momento drammatico il personale medico con la mia specializzazione è necessario. Certo, la mia figura poteva essere utile anche al Gaslini, ma ora per fortuna non esiste alcuna emergenza legata all’infanzia. Poi non ho figli e c’è estremo bisogno di medici in prima linea. Anche mio papà ha capito: mi conosce e sa che non avrei potuto fare altrimenti, come quando sono andata volontaria in Africa».

Il suo esordio nelle corsie del Maggiore di Parma risale a giovedì scorso. «Ho raggiunto la città a bordo di un pullman dell’esercito e lì mi ha accolto cordialmente la primaria Sandra Rossi: dopo qualche giorno di ambientamento da ieri mattina ho preso pieno servizio con il team guidato da Edoardo Picetti, responsabile della Rianimazione. Sono inserita in un bel gruppo di lavoro che mi ha dimostrato sin da subito grande fiducia. E nella nostra professione la fiducia tra i colleghi è importantissima».

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A Parma la situazione è piuttosto seria. «Si percepisce la sofferenza della popolazione – ammette –, nelle strade percorse quasi soltanto dalle ambulanze c’è un clima spettrale e in ospedale tutti i posti di terapia intensiva disponibili sono occupati da pazienti Covid. Un dato che evidenzia l’emergenza». Inevitabile assistere a tante scene tristi. «Due in particolare – rivela – mi hanno molto amareggiata: la prima è quando si è trattato di scegliere se assegnare un posto letto a un giovane sul quale si poteva “investire” o a un altro paziente con speranze di vita pressoché nulle. In quest’ultimo caso, pur tentando il possibile per salvargli la vita, non lo si può che accompagnare verso la morte rendendogli il trapasso meno doloroso». L’altra scena che le rimarrà per sempre in mente l’ha vista protagonista in prima persona. «Riguarda un paziente di sessant’anni, quindi non anziano, ricoverato in Rianimazione. Anche la moglie era allettata in ospedale a causa del Covid. Quando ho trasferito l’uomo in terapia intensiva ho dovuto chiamare i parenti trovandomi a parlare con il loro unico figlio: un adolescente di 18 anni. Sentivo che la sua voce era interrotta dalle lacrime. Terribile».

Perché, in certe circostanze, sono soprattutto i parenti a provare dolore. «Chi è ricoverato in terapia intensiva – spiega la rianimatrice – è sempre molto grave, ma non soffre né fisicamente né di solitudine, non fosse altro perché sin da subito è sedato e intubato per gestire la patologia polmonare che gli impedisce di respirare. In sostanza, dorme. Il dramma è per la famiglia, quindi». Situazioni tipiche da trincea: «Ma io non mi spavento. Sia chiaro: non ho un cuore di pietra, tuttavia so che il mio lavoro è fatto così. La stanchezza? Quella dovuta alla pressione si sente, è vero, ma è compensata dall’adrenalina. Paradossalmente trovo molto sfiancante la fase di vestimento e di svestimento dai presidi per proteggerci: è stressante sapere che sbagliare un passaggio mi mette a rischio». E a questo proposito sottolinea: «Non conosco le altre realtà italiane, ma immagino che almeno nelle terapie intensive i presidi ci siano tutti. A noi qui comunque non mancano. Abbiamo mascherine, visori, stivali, sovrascarpe e tutto il resto per essere protetti».

Simona Silvetti non può non commentare il quadro epidemico isolano: «Ho seguito la situazione della Sardegna sino a un certo punto, poi mi sono concentrata sull’Emilia. È probabile che nell’isola, come altrove, inizialmente l’assenza di consapevolezza abbia creato problemi. La situazione nelle Rsa è complicata ovunque, perché i pazienti avanti con l’età sono più suscettibili. In simili contesti o scopri subito che c’è un contagiato e lo isoli oppure le conseguenze infettive sono inevitabili». E per concludere questa lunga chiacchierata, lancia un suo messaggio ai sardi: «Se avessi potuto scegliere sarei venuta in vostro aiuto».

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