La Nuova Sardegna

Condannato in Francia, l'autista gallurese resta in Italia: «Ora ricomincio a vivere»

Luigi Soriga
Condannato in Francia, l'autista gallurese resta in Italia: «Ora ricomincio a vivere»

La Corte d’appello di Sassari dice no all’estradizione di Mauro Degortes operatore del 118. Era stato arrestato nel 2019 e accusato di due rapine commesse 30 anni prima

12 luglio 2020
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SASSARI. Il bivio era questo, due sole strade possibili: andare in Francia e morire in carcere. Restare in Italia e vivere da uomo libero. Che fosse lui il plurapinatore, che trent’anni fa abbia indossato un passamontagna, puntato una pistola in faccia a un uomo, poco importava. E non importava nemmeno che con questo crimine lui non avesse nulla a che fare, che magari si trattasse solo di uno scambio di persona, di un errore giudiziario. Questi sono aspetti irrilevanti. Il destino di Mauro Degortes era appeso solo a una richiesta di estradizione avanzata dalla Francia. I tribunali laggiù lo avevano giudicato colpevole e intendevano applicare la pena di 20 anni di reclusione. E ora spettava alla corte d’appello di Sassari stabilire se accogliere o meno questa richiesta, cioè consegnare o no il condannato. Degortes attendeva questa decisione da un anno e mezzo.

La svolta. Ieri pomeriggio lo ha chiamato al telefono il suo avvocato: «Dobbiamo vederci subito, vieni nel mio studio». E Mauro Degortes, 54 anni, autista del 118 di Olbia, sapeva bene che la sua vita era arrivata al bivio e avrebbe imboccato una direzione definitiva. Si è presentato con la compagna e con il gelo dentro. «Mauro, resti qui, la corte d’appello ha respinto l’estradizione», gli ha detto l’avvocato. E lui una statua di ghiaccio, giusto un sorriso e incredulità, perché l’inverno che aveva dentro non si scioglie con un raggio di sole. «Ero come tramortito – dice – avrei dovuto gridare, esultare, ma non ne ho avuto la forza. Ancora non ho realizzato che questo incubo, durato un anno e mezzo, sia appena terminato».

L’arresto. Era un giovedì, erano le 13,30 ed era fine febbraio del 2019. «Rientravo da Sassari a bordo di un’ambulanza, avevamo trasportato un paziente al pronto soccorso». Parcheggia nel piazzale, a Tempio, e quando scende dal mezzo li vede: «Erano una ventina di carabinieri, alcuni in borghese, altri in divisa, e poi i cacciatori di Sardegna, tutti schierati come un plotone di esecuzione, sembrava aspettassero un boss di mafia». Lo hanno subito circondato: «Lei sa perché la stiamo arrestando? C’è un mandato di cattura internazionale nei suoi confronti emesso dal Tribunal de Grande Istance di Nantes». Era ricercato dall’autorità giudiziaria francese che lo accusava di aver commesso due rapine a mano armata, una, il 19 ottobre 1989, l’altra, il 27 aprile 1990 per le quali è stato condannato in contumacia (ovvero in assenza dell’imputato) a vent’anni di reclusione. Una sua foto, ricostruita tramite identikit, ha girato per tutta la Francia, con questa didascalia: “Criminale pericoloso, potrebbe essere armato, chi lo vedesse non tenti di fermarlo ma avverta le forze dell’ordine”.

«Sono innocente». Dice Degortes: «Io a Nantes non ci ho mai messo piede in tutta la vita, non so manco dove sia. Ho sempre vissuto in Corsica, da quando avevo 11 anni, e poi mi sono trasferito a Tempio. Hanno sbagliato persona, non sono io quell’uomo della foto». Quella fisionomia l’aveva delineata agli inquirenti il secondo esecutore della rapina, condannato anche lui a vent’anni. E la somiglianza, per i giudici, era fuor di dubbio. Ma Degortes è all’oscuro di tutto, vive da ricercato e non lo sa. Continua a viaggiare tra la Corsica e la Sardegna per 30 anni. Ma quella mattina del 2019 la storia fa un repentino rewind. «I carabinieri mi hanno ammanettato, prima mi hanno portato a Olbia, e poi al carcere di Bancali: sono stato tre giorni dentro una cella. Senza sapere perché fossi lì, senza poter parlare con nessuno». Solo il quarto giorno il suo avvocato nominato d’ufficio, Giampaolo Murrighile, va a trovarlo: «Quando stai per incontrare un criminale condannato a 20 anni, ti fai delle aspettative. Mi sono ritrovato davanti un uomo totalmente spaesato, confuso, perso, spaventato: di tutto poteva avere l’aria, tranne che di un pericoloso plurirapinatore». Mauro Degortes è una persona timida, schiva, un po’ introversa. «Un uomo buono», lo definisce chi lo conosce bene. Dice: «Non capivo cosa mi stesse succedendo, e come fosse possibile essere finito in quella situazione surreale». Racconta il suo avvocato: «Non aveva realizzato la complessità del caso: mi ripeteva: avvocato, io non ho fatto nulla, lo posso dimostrare. Ma non funzionava così, il processo era già fatto e lui era già colpevole. Il punto, adesso, era un altro: non era sull’innocenza che si doveva battere. Ai giudici di Sassari non importava se lui fosse o meno l’autore della rapina. Non dovevano entrare nel merito. Noi dovevamo convincerli solamente che non c’erano le condizioni di legge per autorizzare l’estradizione. Io dovevo fare in modo che non venisse consegnato alla Francia. E questo, per una persona innocente, è difficile da capire e accettare».

La paura e la felicità. Il giudice intanto dispone la scarcerazione e l’obbligo di firma in caserma, prima quotidiano e poi settimanale. Degortes per la giustizia è di fatto un criminale, e i suoi pensieri cominciano a cambiare consistenza: «All’inizio pensavo: è tutto talmente inverosimile che si risolverà. Capiranno di aver preso un granchio. Poi però ho capito che facevano sul serio, che la situazione poteva prendere una piega terribile. Se mi mandano in Francia, io sono morto, sarà un viaggio di sola andata. Ho cominciato ad avere paura». La settimana scorsa, nell’ultima udienza, ha visto i giudici della Corte d’Appello alzarsi, voltarsi, e ritirarsi nella camera di consiglio. In quella stanza portavano dentro il suo destino. Da oggi è quello di un italiano libero.

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