La Nuova Sardegna

La crisi del territorio

Il declino di Sassari, una questione di chimica

di Antonietta Mazzette
Il declino di Sassari, una questione di chimica

17 febbraio 2023
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Sono in molti ormai a parlare di declino di Sassari, parola utilizzata per il sottotitolo di un volumetto pubblicato nella collana Sociologia delle città italiane della Rubbettino, proprio da alcuni sociologi dell’Ateneo turritano.   Parola allora mal digerita e ora acquisita dai più. Che il declino sia sotto gli occhi di tutti è un fatto incontrovertibile, ma quando inizia e quali sono le ragioni? Siamo certi che si deve collocare intorno agli anni ’60 del Novecento e che la causa principale sia da individuare nell’insediamento della SIR nel nord-ovest della Sardegna? Questa tesi, sostenuta da alcuni esponenti politici durante il convegno tenuto a ottobre su Sassari negli anni 1946/1975, è stata recentemente ribadita su queste pagine dal nostro primo cittadino. Mi permetto di sottoporre all’attenzione una lettura differente.

Proprio l’industria chimica, nonostante fosse incompiuta fin dalla nascita, si sia bruscamente interrotta e abbia avuto effetti nefasti sotto il profilo ambientale, ha consentito a Sassari di accelerare il suo processo di modernizzazione, di ingrandirsi sotto il profilo demografico e di acquisire un capitale culturale e sociale non limitato solo al suo essere città terziaria. Grazie a questa presenza industriale anche l’università ha dovuto affinare e allargare la sua offerta formativa; in secondo luogo, pur con le sue contraddizioni, negli anni ’60 e nei due decenni successivi la città è stata dentro il mainstream urbano che vedeva la crescita delle città italiane strettamente legate all’affermazione dei processi industriali.

Questo suo stare dentro i processi più generali che attraversavano l’Italia, lo si può evincere tanto sotto il profilo strutturale (architetture e organizzazione degli spazi che negli anni ’70 del Novecento si riferivano ai principi dell’urbanistica riformista, di cui solo successivamente si sono visti gli effetti sociali perversi), quanto sotto il profilo della distribuzione sociale della popolazione e, non da ultimo, sotto il profilo culturale. Quando si spezza il legame di Sassari con i processi più generali? Sul finire degli anni ’70 e gli inizi del decennio successivo, quando entra in crisi sia la grande industria, sia l’idea di città novecentesca così come si era affermata in Italia, a partire da quelle industriali come Milano e Torino.

La crisi industriale mette in crisi anche le città che devono perciò rimettersi in gioco elaborando nuove strategie, ad esempio sul piano della cosiddetta ‘rigenerazione urbana’. Per inciso dico che anche questi processi di rigenerazione urbana, dove hanno avuto successo, ad esempio Milano, creeranno altri effetti perversi che sono diventati eclatanti durante l’emergenza sanitaria. In altri termini, a Sassari il processo di decadenza si apre dopo la crisi della grande industria e il disastro a cui è stata destinata la chimica dalla nostra politica e non a causa di essa e perché, a differenza di altre città, non è stata in grado di cogliere le direzioni del mutamento e non ha saputo rapportarsi alle nuove esigenze sociali e culturali che stavano emergendo. O meglio, la rendita edilizia ha soffocato qualunque altra opzione di sviluppo della città.

Ciò si evince dalle modalità stesse con cui Sassari si è espansa (si pensi a Predda Niedda), oltre che dal definitivo abbandono del centro storico (avvenuto sul finire degli anni ’70 del secolo scorso), dall’aver ignorato la crescente domanda di recupero del patrimonio architettonico nei primi anni ’80 (si pensi all’abbattimento di buona parte del patrimonio Liberty) e, non da ultimo, dall’aver considerato ostili tutte quelle tematiche legate alla sostenibilità ambientale che erano emerse già agli inizi degli anni ’90 e che altrove si sono tradotte, ad esempio, in piani di mobilità sempre meno gravata dal traffico automobilistico. Il punto di rottura, perciò, va ricondotto a tempi e politiche ben più recenti.


 

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