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Il personaggio

Luigi Garlando: «I bimbi ci insegnano lo sport, a noi non resta che imparare»

di Roberto Muretto
Luigi Garlando: «I bimbi ci insegnano lo sport, a noi non resta che imparare»

Ospite ad Alghero al festival “Dall’altra parte del mare”: «Ci vuole più educazione, chi assume comportamenti sbagliati va radiato»

29 marzo 2023
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Alghero È una penna raffinata Luigi Garlando. I suoi libri, rivolti soprattutto ai ragazzi, hanno avuto successo perché trattano temi di attualità, sociali, sportivi. Per lui non esistono temi da grandi e temi da bambini, ma esistono modi diversi per affrontarli. Lo scrittore-giornalista ieri ad Alghero ha presentato il suo ultimo libro “Siamo come scintille” nel nuovo appuntamento con il mondo dei libri e degli autori al festival Dall’altra parte del Mare.

Ci spiega come si sposano sport e letteratura?
«Bene. Nel senso che mi rivolgo ai ragazzi e considero lo sport la palestra migliore per imparare socialità e legalità. Crescere nel rispetto di un regolamento e dell’avversario, educa. Nei miei libri parlo proprio di questo. Lo sport è un’arena di gesti epici, si presta ad essere raccontato con il linguaggio della letteratura».

Le sue storie come nascono?
«Da tante cose. Il mio ultimo libro si intitola: Siamo come scintille, ecco io mi definisco un cacciatore di scintille. Mi spiego, devi essere capace di andare in giro per il mondo con gli occhi spalancati e raccogliere scintille che possono diventare storie. Una mia amica libraia di Bologna mi ha dato l’ispirazione per scrivere il libro su Falcone, dove ho raccontato l’avventura del magistrato. Il libro Mio papà scrive la guerra, è la storia di Maria Grazia Cutuli, giornalista assassinata in Afghanistan, che conoscevo, nel quale racconto l’importanza e il ruolo dell’inviato di guerra».

La passione per la scrittura come è nata?
«Dal libro Non sparate sui Narcisi di Luigi Santucci, che poi ho conosciuto, regalato per l’estate quando ero un liceale. Di quella storia mi sono innamorato e in quel momento ho capito che la mia passione era la scrittura. Anche in questo caso torna d’attualità il concetto di scintilla».

E la passione per il calcio?
«Non ho ricordi senza un pallone ai piedi da quando ho cominciato a camminare. Ho giocato, avevo sempre la maglia numero 10. Con Mario Beretta (ex allenatore in serie A) siamo stati compagni di squadra in Seconda categoria. Mario è il vero educatore».

Qual è il libro che ha scritto a cui è più affezionato?
«Per questo mi chiamo Giovanni del 2004, dove racconto Falcone. E non perché è stato il più venduto superando il milione di copie ed è tra i più letti nelle scuole. La soddisfazione nasce dal fatto che tanti ragazzi hanno potuto conoscere la storia di legalità dell’uomo Falcone. Questo lavoro è in assoluto il mio orgoglio più grande».

Il premio vinto di cui va fiero?
«Forse lo Strega ragazzi per L’estate che conobbi il Che. Ma vado fiero anche del “Premiolino”, che mi hanno dato l’anno scorso per l’intervista a Gaspare Mutolo, pentito di mafia, che ancora mi scrive, pubblicata in due puntate sul settimanale Oggi. Questo premio in passato è stato dato a personaggi del calibro di Pasolini e Moravia».

Se dovesse scegliere tra fare lo scrittore e il giornalista?
«A livello ideale lo scrittore perché hai più possibilità di usare la fantasia. La formula migliore e fare le due cose. Scrittore e giornalista sono due buoni amici che si aiutato e si completano».

Segue il grande calcio, che cosa le piace e cosa no di questo mondo?
«Mi piace la partita, mi emoziono ancora. Non mi piace la logica del business perché soffoca l’interesse sportivo. Non si pensa al prodotto calcio ma a come venderlo. Troppe partite, non c’è rispetto per il gioco e nemmeno per i protagonisti».

Arbitri che lasciano perché a livello giovanile vengono minacciati e si spaventano. Il suo consiglio per combattere questo fenomeno?
«Andrebbe rovesciato il mondo. Noi crediamo che i bambini debbano imparare lo sport dai grandi, è il contrario. Ho assistito a una scena di un papà allenatore che picchia l’arbitro e suo figlio era in campo. Il bambino, invece, a fine gara ha stretto la mano al direttore di gara. Chi ha dato l’esempio? ».

Si picchiano anche tra allenatori delle squadre giovanili.
«Ci vuole più educazione alla base. Ma come sono trascurati i settori giovanili, c’è poca professionalità tra i tecnici. Si deve fare in modo che siano veri educatori. Non amo le leggi dure ma chi ha questi comportamenti va radiato a vita dallo sport in generale».

Ha saputo che hanno deciso di intitolare il nuovo stadio del Cagliari a Gigi Riva?
«Che bello! Quando lo incrociavo a Coverciano nei vialetti del Centro sportivo federale, la parte più bella era sedermi e parlare con lui. Mi interessava di più che vedere i giocatori in campo. Il suo primo gesto una volta seduti sulla panchina era fumare una sigaretta. Le ultime volte che l’ho incontrato è stato a Cagliari nel ristorante dove aveva sempre un tavolo riservato».

Un collega dal quale ha imparato il mestiere?
«Gianni Mura. Come inviato della Gazzetta dello Sport ho seguito il Tour de France. Un mese in macchina con lui per me è stata una lezione di vita. Dopo il lavoro ricordo le partite a bocce, specialità petanque, contro i francesi. Quell’anno gli rubarono la macchina da scrivere, il giornale Le Figaro dedicò una pagina a questa notizia scrivendo che era stato derubato il poeta della Grande Boucle. Quanti consigli mi ha dato. Mi rivolgevo a lui quando avevo qualche crisi professionale. Ho anche un altro ricordo».

Lo vuole raccontare?
«Il direttore Cannavò mi manda a fare un’intervista all’allenatore Spalletti, allora emergente. Prima di me aveva parlato proprio con Gianni Mura. Ero terrorizzato, pensavo che avrei fatto una brutta figura».

Zola è diventato vice presidente della Lega Pro, che ricordi ha di lui?
«Ho trascorso con Gianfranco un’ intera giornata al mare a Puntaldia. Lui faceva un campus in quei giorni. Stiamo parlando di un grande campione. Da italiano sono sempre stato orgoglioso di come lo celebravano in Inghilterra».

A Milano vive un altro campione sardo, Pietro Paolo Virdis.
«Ho un suo ricordo attraverso Arrigo Sacchi. Mi raccontava che sul pullman della squadra leggeva sempre un libro e lui aveva il sospetto che fosse sempre lo stesso».

Chiudiamo col Cagliari che è finito in serie B.
«La Sardegna e la Sicilia devono stare in serie A, sempre nel rispetto del merito sportivo. Ora si parla di costruire il ponte di Messina. Ecco, Il campionato italiano lo considero un ponte, senza sarde e siciliane è monco».

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