La Nuova Sardegna

L’armistizio

Il tragico 8 settembre dei sardi, isolati e reclusi lontano da casa

di Paolo Curreli
Il tragico 8 settembre dei sardi, isolati e reclusi lontano da casa

Il crollo del fascismo, il re in fuga, una generazione doppiamente sconfitta e tradita. I soldati abbandonati nei teatri di guerra che diventano schiavi per il Reich

08 settembre 2023
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L’ 8 settembre del 1943. 80 anni fa. La guerra disastrosa voluta da Mussolini finisce aggiungendo tragedia alla tragedia. Il Duce viene destituito dal Gran consiglio. Il maresciallo Badoglio (ora capo del governo) dichiara alle 19 dalla radio l’armistizio. Quelli che erano nemici sono ora amici, più di un milione di soldati, sbandati e senza ordini chiari, sono adesso in preda alla rappresaglia dell’ex alleato nazista. È il momento tragico delle scelte. Epocale per tutto il Paese ma, come hanno vissuto i ragazzi sardi in armi quelle giornate? Ne parliamo con Marina Moncelsi, storica delll’Istasac (Istituto per la Storia dell’Antifascismo e dell’età contemporanea della Sardegna Centrale), istituto che propone una mostra a Nuoro su queste vicende. «La Sardegna è lontana dai grandi teatri di guerra che percorrono la Sicilia e la Penisola – spiega Moncelsi– ma questo isolamento geografico è alla base della tragedia che i sardi vivono in quelle giornate. Se per tutti è difficile scappare e tornare a casa, per loro è, invece, impossibile. I militari italiani reagiscono in alcuni casi, come a Cefalonia, dove vengono sterminati. Ma in gran parte vengono deportati prima come prigionieri di guerra, ma è una categoria scomoda per i nazisti che stanno istituendo la Rsi nel Nord. Il 20 settembre, per ordine di Hitler, vengono classificati Italienische Militär-Internierte (Internati militari italiani, Imi)».

Da alleati a schiavi in pratica, da militari a disprezzati traditori. «Ci sono molte variabili per gli Imi che nel periodo di prigionia (e cioè dall’8 settembre 1943 alla Liberazione nel 45) ne hanno spesso determinato il passaggio da soldati a civili, e talvolta perfino a deportati – spiega meglio la storica – . Per restare dentro la denominazione tecnica di Imi dovremmo ricostruire centinaia di migliaia di biografie, 1.006.730 soldati e ufficiali secondo le cifre documentate. Comunque un esercito. Veterani che avrebbero avuto un ruolo determinante nella guerra civile». Dall’8 settembre comincia il calvario, per una generazione provata dal conflitto. «Sono giovani doppiamente sconfitti, dalla guerra e dalle promesse del regime fascista. La sorte degli Imi fu l’arrivo in campi di transito (Dulag), per essere poi distribuiti nei vari campi per soldati (Stalag), campi per ufficiali (Oflag), campi ausiliari e comandi di lavoro (Arbeitskommando); ad esclusione degli ufficiali, i militari internati andarono a sostituire i lavoratori tedeschi utilizzati nell’esercito. Di fatto, tutte le attività produttive tedesche furono coinvolte in questo enorme afflusso di manovalanza schiavizzata (spesso specializzata) che fu impiegata in ogni settore: dai lavori agricoli alle ferrovie alle miniere, dallo sgombero delle macerie al lavoro nelle fabbriche». Il momento delle scelte, per quanto difficili dal punto di vista pratico e morale a cui era difficile sfuggire, secondo la ricercatrice. «A quasi tutti gli Imi fu offerta la scelta di un rapido rimpatrio a patto che firmassero per la Rsi e continuassero la guerra a fianco dei tedeschi. Contro gli italiani, sì… e con questa prospettiva, la stragrande maggioranza di loro rifiutò l’opzione più facile, comoda ma disonorevole. Pochissimi i sardi che accettarono, per i quali comunque il rientro in un’Italia divisa in due e lontana da casa sarebbe stato solo un palliativo alle proprie condizioni di vita». Una Resistenza senza armi, ma ugualmente difficile e coraggiosa. «Esatto, una vera e propria Resistenza: ma dovettero aspettare il 1983 per vedersi riconosciuto il titolo di Combattente per la Libertà d’Italia, e fu il Presidente Pertini a firmare la legge di riconoscimento per gli Imi».

Eppure questi ragazzi sopportarono la durezza dell’internamento. «La vita in campo era non univoca per tutti – chiarisce Moncelsi – in alcuni campi il sovraffollamento faceva diffondere malattie ed epidemie spesso letali; la fame e il freddo (l’inverno del 1944 fu particolarmente rigido) condussero molti internati alla morte o ad indicibili sofferenze; mentre altri lager erano per così dire più “umani” e il trattamento di pochi fortunati soldati fu tollerabile. Per tutti, il disprezzo da parte dei tedeschi verso un esercito considerato traditore e costituito da persone non affidabili. Per nessuno dei militari internati ci fu la temibile selektion all’appello quotidiano: infatti gli Imi non venivano sottoposti ad alcuna selezione per individuare gli inabili al lavoro e i malati venivano inviati all’ospedale. Questo non per umana solidarietà, quanto per rendere il malato più presto possibile operativo. Avvennero anche molti rimpatri per malattia, ma i sardi non godettero di queste occasioni: la loro terra d’origine era resa ancora più distante dal mare. E proprio il mare, l’isolamento della Sardegna rispetto alle zone di operazioni militari, aveva a suo tempo impedito a tantissimi sardi quel fenomeno dello “sbandamento” che portò tantissimi più fortunati continentali ad ingrossare le fila delle formazioni partigiane nelle zone a loro più familiari». Il rientro dalla prigionia? «Nei confronti degli Imi non vi è stata alcuna ricerca sistematica prima del lavoro sfociato nel sito www.imisardegna.it, raccolta parziale di dati su scala regionale dei militari internati nel Reich dopo l’8 settembre. Alla liberazione dei campi da parte degli Alleati, iniziò il lento rientro. Anche questo, in un Paese devastato dai bombardamenti e dall’impraticabilità di molte linee ferroviarie, fu un ulteriore sofferenza, tollerata solo dalla speranza e dalla gioia del rientro. I reduci furono costretti a fornire le prove della loro “assenza al reparto” e, presentandosi al distretto militare di origine, vennero sottoposti ad un processo verbale di interrogatorio. Ed è questa per noi ricercatori la fonte a cui attingere per conoscere quegli stralci di vite rubate, vite che vorremmo ricostruire almeno nella memoria collettiva».

Gli eventi di 80 anni fa

I tedeschi vanno via A partire dall’8 settembre la 90ª Panzergrenadier Division abbandona l’isola, come concordato con il generale Antonio Basso.

Ordini contrastanti Le voci di uno sbarco degli americani hanno nei tedeschi l’effetto di affrettare la risalita verso la Corsica. La divisione tedesca, costituita da 32.000 uomini al comando del generale Carl-Hans Lungershausen, ottiene il lasciapassare dal generale Basso. Il 12 settembre ordine di tenore opposto: impedire il passaggio dei tedeschi. Ma Basso dà l’ordine di favorire la risalita, cosciente della superiorità militare nazista, in questi convulsi frangenti si verificano episodi la cui responsabilità ricade sulla scelta di Basso.

Ponte Mannu, 9 settembre I tedeschi tentano di forzare un posto di blocco sul Tirso, i soldati italiani al comando del tenente colonnello Sardus Fontana resistono, scontro a fuoco e feriti da entrambi le parti.

Baressa, 9 settembre A quaranta chilometri da Oristano, i tedeschi tentano di requisire alcuni camion. Nasce uno scontro con i cittadini. Anselmo Lampus di 17 anni rimane ucciso.

Macomer, 10 settembre Il Capo di Stato Maggiore della divisione paracadutisti “Nembo” Alberto Bechi Luserna: informato che un battaglione della stessa “Nembo” intende unirsi ai tedeschi li raggiunge per dissuaderli, ma viene ucciso insieme a un carabiniere e il suo corpo trasportato fino a Santa Teresa e gettato in mare.

Battaglia della Maddalena I tedeschi non più uomini sconfitti in ritirata, ma agguerriti occupanti della più importante base italiana di tutto il Mediterraneo, danno il via a un a lunga serie di scontri che si concludono con 24 morti e 46 feriti tra gli italiani, prima di lasciare definitivamente la Sardegna il 16 settembre alla volta della Corsica e della Toscana per disseminare di orrore e lutto il Continente.

Partigiani Numerosi soldati sardi lontani dall’isola passano nelle file della Resistenza. Un episodio tra tanti: la bandiera della brigata intitolata a Piero Borrotzu, che si sacrifica in Liguria per salvare un intero paese, è la prima a entrare a Genova.

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