La Nuova Sardegna

La testimonianza

Covid, il medico: «Mai avrei pensato di vedere tanta gente morire»

di Luigi Soriga
Covid, il medico: «Mai avrei pensato di vedere tanta gente morire»

Catello Panu Napodano, in prima linea in Malattie infettive a Sassari

16 marzo 2024
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Sassari Il Covid ha segnato nel profondo una generazione di medici. «La prima cosa che mi ha lasciato, a pensarci bene, sono i capelli bianchi. Prima del 2020 non ne avevo neanche uno». Catello Panu Napodano, sassarese, 46 anni, medico del reparto di Malattie infettive dell’Aou di Sassari, sin dalla prima ondata si è ritrovato catapultato in trincea. «L’ultima cosa che avrei pensato, era di vivere sulla mia pelle una pandemia. Sembravano capitoli dei vecchi libri di storia, mai mi sarei aspettato di vedere così tante persone morire davanti ai miei occhi».

«Prima del Covid lavoravo in un reparto di Medicina interna, e anche lì diversi pazienti non ce la fanno. Ma è diverso, perché in quel caso te l’aspetti. Col coronavirus ti trovi davanti ragazzi, apparentemente in forze, che precipitano da un momento all’altro, senza una ragione precisa».

Molti di loro erano soggetti fragili, e la paura della morte, quando arriva la fame d’aria e si apprestano a indossare il casco o essere intubati, gliela si legge negli occhi: «Mi è rimasto impresso un paziente con la sindrome di down. Avrà avuto una cinquantina d’anni, ma era come un bambino. Faceva tenerezza, è stato molto difficile curarlo, perché era completamente disorientato, si toglieva continuamente il casco, era spaventato, non capiva cosa gli stesse accadendo. Per fortuna, nonostante fosse anche cardiopatico, è riuscito a sopravvivere».

Altri, purtroppo, non hanno avuto la stessa fortuna. «Nel reparto sono state ricoverate tante persone che io conoscevo, e molti parenti di amici. Ho visto morire un mio collega, col quale avevo iniziato la carriera di medico. Ho dovuto chiamare al telefono alcuni amici per dirgli che il loro papà non ce l’aveva fatta. Altre volte ho visto i pazienti fare la videochiamata ai propri cari prima di essere intubati, con la morte nel cuore, ma fingendo di essere tranquilli. Sono stati momenti molto duri».

Anche i ritmi di lavoro erano sempre sul limbo del burnout: «Entravi in reparto, ed era come immergerti in un mondo parallelo dal quale non sapevi quando saresti potuto uscire. Eri bardato e durante la prima ondata, quando del covid non si sapeva niente, tutti avevamo paura di contrarre il virus. Figurarsi che ci eravamo tagliati anche i capelli a zero, la barba sempre fatta, per evitare un ulteriore ricettacolo di batteri».

E poi arrivò anche il dramma delle case di riposo e delle rsa, dove gli anziani morivano a frotte: «Spesso ci siamo trovati a decidere su chi provare a salvare e chi invece no. Non c’erano letti nei reparti ospedalieri, bisognava per forza fare una selezione. Ricordo che c’era una coppia di anziani, e pensavamo di portare in Malattie infettive la moglie. Ma lei non ne ha voluto sapere di lasciare da da solo il marito, quel destino, come da cinquant’anni a questa parte, lo avrebbero affrontato insieme. E così sono rimasti uniti nella casa di riposo, e alla fine sono anche riusciti a sopravvivere».

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