La Nuova Sardegna

L’assalto ai portavalori, l’inchiesta

Droga, bombe e la vita alla macchia: ecco i ritratti dei banditi arrestati

di Luigi Soriga
Droga, bombe e la vita alla macchia: ecco i ritratti dei banditi arrestati

I nomi compaiono in numerosi fascicoli: da Rocca l’intermediario a Piras il custode di ordigni. E ci sono anche storie segnate da faide e omicidi

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Sassari Non è soltanto un colpo da manuale, quello andato in scena lo scorso marzo lungo l’Aurelia, in Toscana. Un assalto da rapinatori esperti, eseguito con armi da guerra e precisione militare, contro un portavalori carico di contanti. È anche la punta di un iceberg. Una criminalità sarda che non ha mai davvero smesso di esistere, ma si è trasformata, adattata, l’ordinanza del Gip di Livorno non fa altro che confermare il curriculum e l’esperienza consolidata della banda. In un passaggio si legge, testuale: «Con le circostanze aggravanti di aver commesso i fatti utilizzando armi, agendo con il volto travisato da scaldacollo e passamontagna ... Con la recidiva specifica per Piras, Palmas, Rocca, Mura, Columbu, Tilocca Con la recidiva specifica e infraquinquennale per Cherchi». Dietro gli undici arresti eseguiti il 19 maggio, nove dei quali in Sardegna, non ci sono soltanto nomi. Ci sono storie. Volti già comparsi nei faldoni giudiziari degli ultimi vent’anni. Profili segnati da rapine, droga, armi e vendette incrociate. Banditi cresciuti tra paesi incastonati nei monti del Nuorese. A raccontare queste storie, più dei verbali e delle imputazioni, sono le loro biografie.

Francesco Rocca. Orotelli, classe 1978. A lui il ruolo dell’intermediario. Uno che sta sempre nel mezzo: tra il denaro e la polvere bianca. Già nel 2008 compariva in una inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia per traffico di stupefacenti. Secondo gli inquirenti, avrebbe fatto da tramite per la vendita di tre chili di eroina e cocaina, insieme a Giovanni Mercurio e Luciano Delrio. Non una partita occasionale: un affare tracciato da intercettazioni, gps, appostamenti. Movimenti frenetici tra Orotelli, Loculi, Iscra, mentre a Porto Rotondo li aspettava un acquirente “di vecchio stampo”. Quando gli uomini della Dda arrivarono a casa di Mercurio, trovarono oltre 250mila euro in contanti, nascosti tra le lenzuola e i mobili. Nel 2020, il nome di Rocca riemerge di nuovo, in un’altra indagine, questa volta contro Graziano Mesina, il bandito gentiluomo tornato trafficante internazionale. Rocca figura tra gli indagati, in stato di libertà. Non viene arrestato, ma la lente degli inquirenti è ancora su di lui.

Antonio Stochino. Arzana, classe 1978. È l’unico degli undici non finito in cella. Indagato a piede libero. Il giudice non ha convalidato l’arresto, ma il suo nome, negli ambienti investigativi, è ben noto. Nel 2012, fu arrestato insieme a Sergio Arzu, per una coltivazione di marijuana: 200 piante, in località Ulei, territorio comunale di Lanusei. Una piantagione mimetizzata tra i boschi, con irrigazione a goccia e teli ombreggianti. Agronomia criminale di nuova generazione.

Renzo Cherchi Irgoli, classe 1986. Il suo nome, in apparenza, arriva per caso. Ma in realtà lo si ritrova nella carne viva di una tragedia familiare. È il fratello di Sara Cherchi, uccisa il 3 settembre 2008 insieme al fidanzato Mario Mulas. Un’esecuzione in piena regola, in una casa di Irgoli. Il killer si chiama Andrea Dessena, ma la miccia l’aveva accesa proprio Renzo, almeno secondo l'accusa: un incendio e un furto d’auto, una Opel Corsa, ai danni dell’imputato. Una faida minore, un’offesa da vendicare. Minacce, messaggi, ritorsioni. E poi la vendetta. I giudici parlano di “antefatto”, ma la parola vera è “vendetta”. Da quella catena di rancori nasce un duplice omicidio. Renzo Cherchi non è mai finito a processo, ma il suo nome compare ripetutamente nel fascicolo. Coinvolto in altri processi per rapine, è stato assolto. Oggi, con questo arresto, torna sulla scena. Con accuse diverse, e con un passato che non si cancella.

Franco Piras Barisardo, classe 1979. Quando si consegnò ai carabinieri di Lanusei, una sera del febbraio del 2006, Franco Piras aveva 27 anni e un’accusa pesante sulle spalle: concorso nella detenzione di esplosivo militare Demex, il più potente tra quelli rubati dal deposito dell’Esercito a Campomela, vicino a Sassari, nel 1997. Il suo nome, insieme a quello del fratello Giovanni, era spuntato in una inchiesta sugli attentati contro le ditte edili che lavoravano alla nuova Orientale Sarda, la Statale 125. L’esplosivo era nascosto in modo artigianale: 500 grammi infilati nella carcassa arrugginita di una vecchia auto, dentro un recinto nell’ovile di famiglia, in località Gelenunui. Con lui, anche materiale di dubbia provenienza, e sospetti che guardavano lontano: verso quegli ordigni disseminati nei cantieri dell’Ogliastra, a bassa intensità che avevano trasformato la zona in una scacchiera di minacce. Quando fu arrestato il fratello, nel 2005, Franco decise di sparire. Un anno latitante, rintanato tra i monti, dove il freddo punge più della paura, ma dove i carabinieri del colonnello Salvatore Favarolo non smettevano di cercare. Alla fine, fu la pressione costante degli investigatori, ma anche l’insistenza del padre, dei familiari e dell’avvocato Paolo Pilia, a convincerlo che era tempo di arrendersi. Così fece: arrivò nella caserma con l’avvocato, chiese di vedere il procuratore, e poi si lasciò portare via. Un arresto che i militari, quel giorno, definirono "un risultato importante". 

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