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Lotta agli incendi con i droni: «Folle chi pensa sia la soluzione»

di Luigi Soriga
Lotta agli incendi con i droni: «Folle chi pensa sia la soluzione»

L’ex comandante forestale Muntoni: «Un grande spreco di risorse. Meglio le vedette e tanti uomini esperti davanti alle fiamme»

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Sassari Dicono che stavolta a spegnere il fuoco ci penseranno i droni. Che basterà una termocamera e un joystick, invece di una vedetta, un forestale, un atomizzatore e un paio di scarponi roventi. Che il futuro ha le eliche piccole e i sensori intelligenti. Poi però arriva un incendio vero, non di quelli da convegno, con le fiamme alte decine di metri, ed è una realtà che brucia, che riduce in cenere qualsiasi miraggio high tech. «Una fesseria immonda», ringhia chi il fuoco lo guarda negli occhi da anni. E sa che il fuoco non si spegne con la tecnologia da salotto.

Di questo sono convinti i soldati della prima linea dell’antincendio. Dicono: «I droni sono solo fumo negli occhi della politica». Per loro l’unica cosa che serve davvero è una vedetta con occhi aguzzi e piedi svelti. Tutto il resto – sensori, droni, piattaforme 3D – è plastica buona per la conferenza stampa. Giancarlo Muntoni, ad esempio, è uno che l’inferno l’ha visto da vicino per quarant’anni. Ex direttore del Corpo Forestale di Sassari, prima ancora a Tempio, già presidente degli Agronomi, ora in pensione. Quando sente certe sparate, non si trattiene: «È ancora lontano il giorno in cui potremo usare i droni per spegnere i roghi. Chi lo dice, non ha mai visto da vicino un incendio. E né ha contezza della capacità distruttiva di fiamme alte anche 30 metri! E se ha visto uno scenario del genere e continua a sostenerlo, allora è un cretino».

A Santu Lussurgiu, nel Montiferru già bruciato nel 2021, si prepara una “maxi simulazione antincendio” con droni, sensori, software 3D. È il progetto europeo TEMA, 11 milioni di euro messi in campo da Bruxelles per digitalizzare la guerra al fuoco. Ci saranno la Protezione Civile, l’Università di Messina, ingegneri, tecnici, osservatori, Forestas, volontari, persino i social geolocalizzati. Sembra tutto bellissimo. Ma in Sardegna, dove il fuoco arriva ogni estate e si prende tutto, chi nella fornace ci lavora davvero guarda a questo entusiasmo con un misto di rabbia e amarezza. «I droni? Volano 15 minuti, poi devono cambiare batteria. Coprono 20 ettari quando va bene. E noi abbiamo vedette che a occhio nudo controllano centomila ettari», spiegano. «Per spegnere il fuoco servono gambe, non joystick. E quando il drone trova un punto caldo, che fai? Comunque devi andarci a piedi. Bonifica, zappa, rivoltare il terreno, creare discontinuità, sottrarre carburante alle fiamme. Sudore, lavoro sporco. Lavoro vero».

Il punto è che il sistema antincendio sardo, per quanto bistrattato, zoppicante, funziona oltre ogni possibilità. Ogni giorno sono in campo 300 forestali effettivi, più 1.100 tra vedette e squadre di Forestas, più i volontari. «Molti di loro rinunciano a un giorno di mare per correre su un rogo, gratis, solo per coscienza. Hanno i loro limiti, ma sono indispensabili. E c’è chi vorrebbe sostituirli con un drone pagato il doppio. Per peggiorare il servizio». «Il drone non può volare se ci sono elicotteri e aerei, si tratta di mezzi incompatibili, che si ostacolano a vicenda. Non può portare acqua. E se la butta, non è preciso. E se non c’è nessuno a terra a fare il lavoro sporco, che serve abbassare le fiamme se poi si rialzano?».

Poi, dicono, c’è la genialata dei sensori: un sensore ogni ettaro per rilevare le fiamme in tempo reale. Suona bene, finché non fai i conti. «Due milioni e quattrocentomila ettari in Sardegna. Due milioni e quattrocentomila sensori. Che dopo cinque anni devi cambiare. E diventano rifiuti. Milioni di pezzi di immondizia elettronica nei boschi. Per cosa? Per non rilevare il 60% degli incendi, che si sviluppano su meno di mille metri quadri e vengono spenti prima ancora che il sensore faccia “bip”».

È la lotta eterna tra il reale e il digitale. Tra la faccia impolverata del forestale e lo schermo touch dell’analista. «Il nostro sistema antincendio è uno dei migliori al mondo. Lo dicono all’estero, ce lo invidiano. E noi? Invece di potenziarlo, di investire in formazione e addestramento, in nuove assunzioni, in prevenzione sul territorio, sprechiamo milioni per i droni e una valigetta di sensori?». Il fuoco si combatte a terra. Palmo a palmo. Zappetta in mano. Goccia dopo goccia. Si spende ancora troppo per spegnere, e troppo poco per prevenire. Il clima cambia, le piogge si dimezzano, le campagne si svuotano. I terreni diventano polveriere. E ogni estate parte lo stesso spettacolo: Canadair, elicotteri, fumo che sale. Ma il fuoco era lì, già a gennaio. Aspettava solo che qualcuno gli lasciasse abbastanza sterpaglia per salire. Servono manutenzione dell’agro, fuoco prescritto, strisce tagliafuoco, non così tanta tecnologia. Bisogna interrompere la continuità vegetale, togliere carburante alle fiamme. Lo sanno bene le guardie forestali, quelle che ancora frequentano le campagne, che camminano i sentieri, che sanno dove ricomincerà l’incendio “fotocopia” dell’anno scorso, perché l’hanno visto con i loro occhi. Il sistema di avvistamento, dicono, è perfetto. Le vedette vedono tutto. E ogni cittadino, in fondo, è una vedetta: le telefonate ai centralini arrivano a decine. Ridondanti, sì, ma preziose. Perché il territorio lo conosce chi lo abita, chi ci lavora. E la tecnologia, se serve, deve servire l’uomo, non sostituirlo e né deresponsabilizzarlo. La verità è che certe cose non si digitalizzano. Non la lotta al fuoco, e nemmeno il coraggio. Per ora a spegnerlo ci sono ancora uomini in carne e ossa, con gli stivali impastati di cenere. Tutto il resto, a detta di chi ogni estate mette in gioco la vita, è fumo. E non sempre quello dell’incendio.

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