La Nuova Sardegna

Il caso

Lo scandalo social “Mia moglie”, la testimonianza: «Ho scoperto di essere nel gruppo, mi sono sentita spezzata»

di Ilenia Mura
Lo scandalo social “Mia moglie”, la testimonianza: «Ho scoperto di essere nel gruppo, mi sono sentita spezzata»

Meta ha chiuso il gruppo in cui venivano pubblicate le foto rubate a mogli e fidanzate dove commentavano 32mila iscritti. Fioccano le denunce alla Polizia postale: si rischia il carcere

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Sassari Fra le vittime, tutte donne, c’è chi trova il coraggio di raccontare l’inferno che sta vivendo«Oggi ho scoperto di essere nel gruppo “mia moglie”. Non sapendone assolutamente nulla. Lui si è giustificato dicendo che fosse soltanto un gioco... Abbiamo 2 figli...e 10 di matrimonio alle spalle. Foto nostre, private di momenti di vita quotidiana. Mi sento spezzata in due».

La solidarietà «Una forma di violenza, subdola, ha usato immagini tue, intime, private senza il tuo consenso. Il tuo compagno di vita, il padre dei tuoi figli ti ha dato in pasto a dei depravati. E sminuisce pure. Che cosa ti impedisce di denunciarlo per il bene dei tuoi figli?»

I post di migliaia di donne umiliate, violentate e offese nel gruppo social “Mia Moglie” – chiuso poi da Meta dopo la valanga di segnalazioni – stanno suscitando l’indignazione e la solidarietà  collettiva di centinaia di donne che, in queste ore, si stanno mobilitando in Rete per contrastare un fenomeno che, stando alle testimonianze, non sarebbe affatto una novità. 

Commenti come «Vi presento mia moglie», «Se si facesse trovare così?» o «La sveglio oppure no?» hanno trasformato i corpi delle donne in oggetti di consumo collettivo. Foto scattate di nascosto, senza il consenso, che immortalavano momenti intimi e non, di mogli, fidanzate, compagne diventavano carne da macello. 

Madri di famiglia riprese mentre dormivano o si vestivano o, semplicemente, salivano le scale con addosso una minigonna: le foto scatenavano i commenti dei partecipanti. A smantellare quello che in tanti definiscono “un orrore” è stata la denuncia pubblica della scrittrice Carolina Capria e quella di “No justice no peace”, che ha portato alla chiusura della community su Facebook e alle oltre mille denunce alla Polizia Postale. Gli autori rischiano fino a sei anni di carcere

Il gruppo con 32mila iscritti è stato travolto dallo tsunami di segnalazioni. La scoperta di «violenze» e violazioni della legge hanno portato alla sua chiusura da parte di Meta martedì 20 agosto. «Abbiamo rimosso il Gruppo Facebook (Mia Moglie) per violazione delle nostre policy contro lo sfruttamento sessuale di adulti. Non consentiamo contenuti che minacciano o promuovono violenza sessuale, abusi sessuali o sfruttamento sessuale sulle nostre piattaforme. Se veniamo a conoscenza di contenuti che incitano o sostengono lo stupro, possiamo disabilitare i gruppi e gli account che li pubblicano e condividere queste informazioni con le forze dell’ordine» ha dichiarato un portavoce di Meta.

Verrebbe da dire, meglio tardi che mai. Resta la domanda: vista la violazione della policy, perché non era stato rimosso prima? 

Dal punto di vista legale condividere immagini del genere può essere un reato: si chiama revenge porn. Dal 2019 è inserito nel codice penale, all’articolo 612 ter e riguarda la «diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti», senza che sia stato dato il consenso da parte di chi appare negli spazi virtuali, siano essi canali social o applicazione dei telefonini.

Un reato che, a quanto pare, sembra non turbare gli iscritti. Viene da citare la frase «Ignorantia legis non excusat»: la legge non ammette ignoranza. E mentre gli uomini protagonisti si sono detti infastiditi dal clamore sollevato annunciando la creazione di nuovi gruppi chiusi, come poi è stato fatto, sul caso continuano a fioccare le denunce: «Oggi, come promesso, ho formalizzato una denuncia-querela per il reato di diffamazione aggravata a mezzo internet nei confronti degli amministratori e di tutti gli utenti identificabili del gruppo Facebook denominato “Mia Moglie”». Così in una nota la co-portavoce di Europa Verde e esponente di AVS, Fiorella Zabatta, che ha spiegato: «Il gruppo, successivamente disabilitato dalla piattaforma Meta anche a seguito delle numerose denunce alla Polizia Postale, era diventato un vergognoso contenitore in cui uomini, celati dietro pseudonimi, pubblicavano fotografie di mogli, compagne e fidanzate, spesso in momenti di intimità o in abiti succinti, a totale insaputa delle dirette interessate».

Anche la collega Roberta Polese scrive sul suo profilo social: «Ho passato la notte tra martedì e mercoledì a leggere l'ORRORE che scorreva nel profilo "Mia moglie", che dal 2019 condivideva foto scattate a donne e diffuse senza il loro consenso, al quale erano iscritti 31mila uomini, e che per fortuna ieri alle 13.30 è stato chiuso dalla polizia postale. Tra i frustrati che commentavano e postavano oscenità sulle loro compagne e quelle degli altri, c'erano anche 12 miei "amici" qui su Facebook. Professionisti, imprenditori, "COLLEGHI", candidati sindaci».

In un pezzo del Corriere.it la dichiarazione di uno degli uomini che compariva nel gruppo: «Guardi, io sono in pensione da cinque anni, sono un architetto e sono stato anche amministratore del mio Comune per il centrodestra. (...) poi ho smesso di lavorare e da allora non ho un c... da fare, consumo il mio tempo su Internet. Passo gran parte della giornata a guardare il telefonino. Sa com’è..»

E com’è? Fra le donne che su Facebook cercano di analizzare il comportamento di mariti, fidanzati e perfetti sconosciuti, c’è quello della psicologa Monica Collu: «No, non è una bravata. Non è neppure una “semplice violazione della privacy” – scrive sul suo profilo – È un segnale gravissimo. È un problema psicologico, relazionale e culturale molto più profondo. È devastante».

Da un punto di vista psicologico? «Il messaggio che passa è questo: “Il tuo corpo non ti appartiene. Appartiene a me, e io posso disporne come voglio.” Un messaggio che corrode l’autostima, alimenta vergogna, paura e sfiducia. Condividere immagini private non è leggerezza: è VIOLENZA».

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