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Bibbiana Cau: «Nella mia storia c’è un’isola che resiste all’omologazione»

di Paolo Ardovino
Bibbiana Cau: «Nella mia storia c’è un’isola che resiste all’omologazione»

Ex ostetrica, è diventata la scrittrice italiana del momento con il suo libro “La levatrice”

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Bibbiana Cau è un personaggio nuovo, apparentemente nascosto fino a ieri. Adesso è il nome più richiesto nelle librerie italiane. Il suo romanzo d’esordio “La levatrice” (Nord), uscito a maggio, sta conquistando tutti.

La storia di una levatrice di cento anni fa in un paese sardo di cento anni fa è la chiave di volta con cui la scrittrice sarda parla di «resistenza silenziosa», «sorellanza», «confronto con l’altro». Sono i temi che l’hanno ispirata quando vent’anni fa cominciava a pensare a una storia che parlasse di lei – ostetrica per 42 anni – e delle comunità che vede sempre meno.

Scrittori e scrittrici ci azzeccano sempre, sarà per la visione alta e altra, per la sensibilità verso gli aspetti fragili del tempo. «Non lo so», risponde forse un po’ imbarazzata Bibbiana Cau, «ma al centro deve sempre esserci l’umanità».

Da poco in un’intervista su Repubblica non ha voluto svelare il piccolo paese dove vive...

«Si può dire, Norbello. Ora vivo qui, dopo tanti anni in cui ho studiato e lavorato a Cagliari e fuori dall’isola».

Il suo libro è il caso letterario dell’anno. Come sta vivendo questo successo?

«Un successo a questi livelli era inaspettato. Ho lavorato tanto affinché fosse un libro che valesse la pena leggere, ma non immaginavo che dopo due settimane dall’uscita fosse primo nella classifica nazionale generale (“La levatrice” è ancora tra i più letti d’Italia, al quarto posto, ndr). Penso alla cura dedicata a questo esordio negli anni e sono contenta che i lettori colgano il valore di alcuni temi come il sapere femminile, la resistenza anche silenziosa, che per qualcuno è gesto politico».

È un romanzo che si presta a due letture: chi vive nell’isola riconosce molte cose, chi è di fuori si sorprende. Cosa piace del suo libro?

«È arrivata la forza di una cultura arcaica che vuole resistere a questa omologazione globale. La Sardegna da questo punto di vista resiste molto più di altre regioni o nazioni. Accettiamo tutti, la storia insegna che siamo accoglienti, ma non abbiamo mai ceduto del tutto e abbandonato alle spalle a ciò che siamo. In qualche modo nei sardi emerge. Questo può affascinare un lettore contemporaneo che è preso da tante altre cose».

Il romanzo è ambientato agli inizi del Novecento, perché è andata così indietro?

«Mi serviva il 1917 perché era un mondo in divenire, gli uomini erano in guerra a servire una patria di cui sapevano poco, le donne restavano a portare avanti la vita, a reggere l’intero peso della comunità. Per le donne, questa durezza della vita si è trasformata in sorellanza. E poi mi serviva per raccontare il rapporto con chi arriva da fuori».

Parla di Angelica, una giovane ostetrica che nel suo libro arriva dall’università di Pavia nell’isola.

«Lei ha un approccio scientifico moderno, invasivo, che va contro un sapere che era tramandato oralmente, pratico. I due approcci si scontrano. La storia ci insegna che quello scientifico ha avuto la meglio, ma abbiamo ceduto tutta la parte legata all’umanizzazione delle cure. Avrebbero potuto convivere».

La levatrice nell’isola di ieri, l’ostetrica nella modernità di oggi. Cosa è cambiato?

«È una figura che dovrebbe essere centrale nell’accompagnamento alla sessualità o alla genitorialità... credo serva maggiore integrazione tra i saperi e la vicinanza a un luogo. Non per tornare alla figura di cent’anni fa ma perché serve qualcuno che vigili, segua e assista le persone in una comunità».

Ha cominciato a pensare a questo romanzo vent’anni fa. La Sardegna nel frattempo è diventata un luogo diverso?

«Ha subito profondi cambiamenti demografici ed economici e di conseguenza sociali e culturali. Siamo da anni la regione con il tasso di natalità più basso d’Italia e l’indice di invecchiamo tra i più alti. Questo si è acuito. I giovani laureati vanno via per mancanza di opportunità e questa è una cosa nuova, prima emigrava chi non aveva possibilità. Spostarsi sarebbe giusto se fosse una scelta e non una costrizione. Abbiamo un welfare inadeguato, così i servizi per l’infanzia e assistenziali, che penalizzano maggiormente le donne che devono colmare queste lacune da sole».

I problemi della nostra sanità sembrano chiari, eppure irrisolvibili. Perché?

«I problemi restano gli stessi perché la salute pubblica è governata molto dalla politica. Però la salute delle persone non si può tradurre in economia, dobbiamo avere un’attenzione diversa e invece qui la cura è peggio del male in sé».

A cosa si riferisce?

«Potenziamo i servizi privati impoverendo i luoghi di cura territoriali pubblici: togliendo risorse umane, non adeguando la tecnologia. E in questo modo aumentiamo la disparità di accesso alle cure».

Torno al libro, nella sua storia intreccia un topos classico: il rapporto tra vita e morte.

«Sono complementari in un processo biologico ineluttabile, ma in epoca recente, specie in occidente, nascita e morte sono diventati tabù. Non se ne parla, li si nega, tanto che oggi avvengono in luoghi sicuri, istituzionali, ma lontani dagli affetti e dagli occhi della società». 

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