L’avventura di Riccardo Fois, da Olbia alla panchina in Nba: «Ma solo nell’isola mi sento a casa»
Il 38enne gallurese è co-allenatore dei New York Knicks al fianco di Mike Brown. «Crescere in Sardegna è stata una fortuna, è una terra che ti resta dentro»
Da Olbia al Madison Square Garden, su una delle panchine più prestigiose di tutta la Nba. Riccardo Fois, 38 anni, olbiese, ha costruito passo dopo passo un percorso fatto di sacrificio, studio e passione, fino ad approdare nel basket più competitivo del mondo. Dopo gli anni alla Gonzaga University, l’esperienza ai Phoenix Suns, il lavoro con i Sacramento Kings e la collaborazione continua con la Nazionale italiana, oggi siede sulla panchina dei New York Knicks come co–allenatore di Mike Brown. Allora, per te comincia una nuova sfida. Anzi, è già cominciata.
Come la stai vivendo?
«La sto vivendo con molto lavoro, innanzitutto. Da quando sono arrivato, dopo la Nazionale quest’estate, è stata subito full immersion: c’era da organizzare tutto insieme a Mike Brown, che già conoscevo dai tempi dei Sacramento Kings. Il mio compito all’inizio era cercare di portare tutto lo staff sulla stessa lunghezza d’onda. Poi sono arrivati ragazzi verso la fine di agosto e abbiamo dato il via al lavoro sul campo con gli allenamenti. Poi una tappa ad Abu Dhabi e, al ritorno, subito due amichevoli. Insomma non c’è stato quasi il tempo di fermarsi a guardare dove siamo arrivati».
Mancano pochi giorni all’avvio della stagione vera.
«Sì, il 22 ottobre. E partiamo subito forte: Cleveland, Boston e poi Miami. Tre partite toste, ma è anche questo il bello della Nba: non hai mai una gara semplice, ogni sera devi essere pronto a competere al massimo livello».
Sei di Olbia e ora ti ritrovi nella lega più importante del mondo. Qual è concretamente il tuo ruolo nello staff dei Knicks?
«Il mio ruolo sarà quello, innanzitutto, di aiutare coach Brown sul campo, sia tatticamente che in attacco e in difesa, perché sono l’unico che conosce bene il suo sistema. Abbiamo un assistente responsabile dell’attacco, uno della difesa, e io sono il primo a guidare entrambi. Poi c’è il lavoro con un paio di giocatori e lo scout degli avversari. A differenza di altri sport, nel basket Nba devi ricoprire più ruoli: come dicono in America, “multiple hats”, più cappellini. Non ci si ferma mai. Ma se dobbiamo riassumere: il lavoro tattico e lo scout sono quelli che prendono la maggior parte del tempo».
Hai conosciuto gli Stati Uniti da ragazzo, quando frequentavi ancora il liceo. È da lì è cominciato tutto.
«Sì, sono venuto qui da studente: ho prima cominciato a giocare e poi ad allenare a livello universitario».
A Olbia invece giocavi con Gigi Datome.
«Esatto, compagni di squadra nella Santa Croce e grandi amici. Eravamo un gruppo di ragazzi che poi è riuscito a vincere il titolo Allievi a livello italiano, battendo tutte le corazzate. È stata una delle esperienze più belle che ricordi. Bravo io come giocatore? No, ero scarso (ride). Ma quel gruppo era davvero speciale: c’erano entusiasmo, amicizia, la voglia di stare insieme e di migliorare ogni giorno. Ne ho parlato spesso con Gigi: da giovanissimi guardavamo le partite Nba in tv e sognavamo. Lui di giocarci, io di arrivare sulla panchina. E alla fine, quel sogno lo abbiamo realizzato entrambi. Siamo rimasti legatissimi e ci sentiamo spesso: ora lui è capo del settore squadre nazionali, ma troviamo sempre il tempo per aggiornarci o anche solo per chiacchierare. È un’amicizia che non si perde».
Una gran bella soddisfazione. Così come lo è rappresentare l’Italia nell’Nba: tu, infatti, sei l’unico allenatore italiano.
«Sì. C’è un giocatore, Simone Fontecchio, che ovviamente è a Miami e sta facendo una bellissima carriera Nba e poi c’è anche Donte DiVincenzo, che da poco ha preso il passaporto italiano. Ma da allenatore sono l’unico. Non ci sono tanti coach europei o internazionali in Nba: sono solo 30 squadre, è difficile. Quindi sento la responsabilità e l’orgoglio di rappresentare l’Italia nel mondo degli allenatori Nba, anche per tutti quelli che non hanno avuto la stessa possibilità. Se io sono arrivato qui è anche grazie a Ettore Messina e Sergio Scariolo - due leggende, due Hall of Famer -,che hanno allenato in Nba prima di me e hanno fatto talmente bene da creare una reputazione che ha aiutato pure me ad arrivare qui. Ma devo tanto anche a chi ha creduto in me fin dagli inizi, come Mark Few, il coach di Gonzaga, e a quelli che mi hanno insegnato cosa vuol dire lavorare ogni giorno per migliorare. Sento di dover restituire qualcosa: se io faccio bene, magari aiuterò un altro ragazzo italiano tra due, tre, quattro anni ad arrivare a fare la stessa strada, o anche meglio».
A proposito di giovani italiani, tu sei ancora nello staff della Nazionale e fai anche un po’ da supervisore. Tieni d’occhio i ragazzi che giocano negli Stati Uniti?
«Sì. È tanti anni che lavoro con la Nazionale, sia come assistente che come una sorta di estensione della Federazione negli Stati Uniti. Tengo i rapporti con giocatori, agenti… Stiamo anche creando una struttura con Filippo Messina, che lavora a Duke, per ampliare il sistema: ci sono sempre più ragazzi italiani nei college o nelle high school americane e vogliamo dare un supporto concreto, perché stare lontani dall’Italia non è facile. Io ci sono passato e so quanto conti avere un punto di riferimento».
Ora torniamo alle tue radici. Quanto ti manca la tua città?
«Olbia mi manca tantissimo. Come tutti i sardi che lasciano la Sardegna, te la porti dentro. Ti rendi conto della fortuna che hai avuto a crescere lì. Non solo per la bellezza del mare (io non entro in acqua da nessun’altra parte) ma anche per il modo di vivere, per il senso di comunità. Quando incontri un sardo all’estero è come se fosse un amico o un cugino da sempre. Purtroppo non ci passo mai abbastanza tempo: d’estate, se riesco a fare una settimana è già tanto. Però mi fa piacere che dal prossimo anno ci sarà il volo diretto per la Sardegna: l’idea di poter essere a casa in 8 ore da New York (io che sono stato sempre sulla West Coast) mi rende felice. Noi sardi abbiamo una qualità: quella di essere cittadini del mondo, capaci di adattarci ovunque anche a costo di cambiare tutto».
Ma tu dove vuoi arrivare? Hai già raggiunto tanto, ma qual è il tuo obiettivo?
«Vivere bene, essere contento quando mi sveglio la mattina. Era così dieci anni fa e lo è ancora. Finché mi sveglierò felice per ciò che faccio, vorrà dire che sto andando nella direzione giusta».
Com’è vivere e lavorare a New York?
«Innanzitutto è davvero costosa. Però sei nella città più famosa del mondo e nella squadra sportiva più iconica della città. Senti la responsabilità e l’emozione, ogni volta che entri al Madison Square Garden. L’anno scorso la squadra è andata in finale di Conference, l’obiettivo è fare ancora meglio».
Ma quando riesci a tornare a casa, cosa provi?
«Una sensazione che non cambia mai. Appena atterro, appena sento l’aria, mi torna addosso tutto: la mia infanzia, la famiglia, gli amici, il mare, la semplicità delle cose. È come premere “pausa” e ricordarsi chi sei davvero. Perché la Sardegna, anche quando sei lontano, non ti lascia mai».