Manuela Raffatellu, la scienziata sarda ai vertici della ricerca in America: «Ma ora vorrei aiutare la mia terra»
La ricercatrice, ordinario di Microbiologia e Immunologia all’università San Diego si racconta: gli studi al liceo Azuni, l’amore per l’isola, le proposte per rientrare in Italia
Sassari «La scienza ti aiuta a capire il mondo». Una frase semplice che racchiude perfettamente e spiega la scelta professionale e di vita di Manuela Raffatellu. Sassarese, oggi professore ordinario di Microbiologia e Immunologia all’Università della California di San Diego. Una carriera costruita partendo dal liceo Azuni per arrivare ai laboratori statunitensi dove guida un gruppo di ricerca tra i più importanti nel settore delle malattie intestinali.
Nel 2019 è stata eletta “fellow” dell’American Academy of Microbiology, e nel 2023 ha ricevuto dal prestigioso National Institutes of Health (NIH) il Merit Award, un finanziamento decennale destinato solo a pochi scienziati di eccellenza. È stata nominata anche una delle “Inspiring Fifty”, le cinquanta italiane più influenti nella tecnologia.
Come nasce la passione per la medicina e la ricerca?
«Sono sempre stata affascinata dal modo in cui la scienza permette di spiegare ciò che ci circonda. Mi piacevano anche le materie umanistiche, ma le discipline scientifiche mi hanno sempre appassionato di più. Ho scelto medicina perché offriva molte possibilità e perché desideravo studiare qualcosa di utile per l’uomo».
E quando ha capito che la ricerca sarebbe stata la sua strada?
«Durante gli anni dell’università. Al terzo anno sono entrata nel laboratorio di microbiologia con docenti come Salvatore Rubino, Piero Cappuccinelli e Sergio Uzzau. Poi ho partecipato al progetto Erasmus e ho trascorso tre mesi in Danimarca. Dopo la laurea ho deciso di andare negli Stati Uniti per due anni. Sono diventati, ad oggi, 23».
Il primo approdo negli Stati Uniti è stato in Texas.
«Sì, alla Texas A&M University, nel laboratorio di Andreas Baumler, uno scienziato che studia le infezioni intestinali da salmonella. Poi lui si è trasferito in California e io con lui. Dal 2005 vivo lì: prima a Davis, poi dal 2008 a Irvine, dove ho fondato il mio laboratorio e infine dal 2017 a San Diego».
Un laboratorio tutto suo, finanziato con fondi di ricerca in Italia sarebbe impossibile.
«Negli Stati Uniti funziona così: le università aprono selezioni, arrivano centinaia di candidature e solo poche persone vengono invitate ai colloqui. Io ho ricevuto al tempo tre offerte e ho scelto l’Università della California a Irvine, che mi offrì uno “startup package”, fondi iniziali per creare il laboratorio e assumere personale in autonomia. Con quei primi risultati ho poi ottenuto finanziamenti federali. L’ultimo, il Merit (Method to Extend Research in Time) Award, dura dieci anni: un grande privilegio».
Tra i suoi riconoscimenti c’è anche quello come una delle cinquanta italiane più influenti nel tech.
«Sì, era la prima edizione italiana del progetto “Inspiring Fifty”. Ogni anno vengono scelte cinquanta donne italiane attive nella scienza e nella tecnologia. In quell’occasione, oltre a me, venne scelta anche Alessandra Todde. Non ci conoscevamo, ma mi fece molto piacere sapere che c’erano due sarde nella lista».
Può spiegare, in parole semplici, di cosa si occupano le sue ricerche?
«Studiamo i batteri. Alcuni causano malattie, come la salmonella o contribuiscono alla malattia come nelle infiammazioni croniche intestinali – morbo di Crohn e colite ulcerosa – altri invece ci difendono. Il mio laboratorio cerca di capire come i batteri patogeni provocano la malattia e come il sistema immunitario intestinale reagisce. Ma ci interessano anche i batteri “buoni”: il microbiota. Analizziamo i meccanismi con cui aiutano l’organismo a combattere le infezioni e a mantenere l’equilibrio. L’obiettivo è sviluppare nuovi antibiotici capaci di colpire solo i patogeni, senza danneggiare i batteri benefici».
Negli Stati Uniti la ricerca sembra avere un respiro diverso rispetto all’Italia.
«Sì, ci sono ottimi ricercatori anche in Italia e in Sardegna, ma il sistema americano offre infrastrutture e opportunità molto più solide. Qui la ricerca è parte del tessuto economico: ogni dollaro investito genera un ritorno multiplo in innovazione, industria, posti di lavoro. Attorno ai campus nascono aziende farmaceutiche e tecnologiche, e molti nostri studenti trovano impiego in questi settori. È un ecosistema virtuoso, che spiega perché la California da sola rappresenti una potenza economica mondiale».
Le sono mai arrivate proposte per rientrare in Italia?
«Sì, ma le condizioni non sono paragonabili, né dal punto di vista economico né per le possibilità di ricerca. Negli Stati Uniti, quando avevo poco più di trent’anni, mi hanno steso il tappeto rosso per permettermi di iniziare a lavorare. In Italia se la ricerca vuole essere competitiva deve attrarre talenti da tutto il mondo, non solo formarli per poi perderli».
Cosa consiglierebbe a un giovane ricercatore sardo?
«Di partire. Di fare esperienza altrove, che sia all’estero o in altre regioni italiane. È importante confrontarsi con realtà diverse, imparare e poi decidere se tornare. Oggi i giovani sono molto più intraprendenti di noi alla stessa età, e questo è un buon segno».
E lei, ha mai pensato di ritornare?
«Sì, mi piacerebbe. Continuo a tornare spesso, anche per periodi più lunghi, perché ormai posso lavorare anche da remoto. In futuro immagino una vita divisa tra la California e la Sardegna: un po’ qui e un po’ là. Lì ho la mia famiglia, amiche e amici di sempre, i legami che ti formano». Nel 2014 ha ricevuto il Candeliere d’Oro: ricevere quel riconoscimento l’ha sorpresa? «Molto. Non me l’aspettavo e mi ha fatto un enorme piacere. Ho apprezzato anche il coraggio di premiare una giovane donna scienziata, non esattamente una figura “mainstream”».
Il prossimo obiettivo nella ricerca?
«Continuare a fare ricerca ad alti livelli. Mi piacerebbe che una delle scoperte del mio laboratorio arrivasse fino ai pazienti, per esempio un nuovo antimicrobico efficace e selettivo. Il mio lavoro è da “medico dietro le quinte”, ma non dimentico mai che ci sono persone che aspettano risultati concreti per migliorare la propria vita».
E invece un obiettivo legato alla Sardegna?
«Vorrei poter restituire qualcosa alla mia terra. Mi piacerebbe mettere a disposizione le mie competenze, magari collaborare come consulente o semplicemente condividere esperienze su come si fa ricerca in contesti diversi. E soprattutto mi piacerebbe parlare con le ragazze: far capire che la scienza e la medicina non sono “maschili”, che le donne possono essere brave e autorevoli almeno quanto gli uomini».
