La Nuova Sardegna

Il racconto

Caso 41bis, l’isola come braccio duro dello Stato: la storia si ripete

di Gianni Bazzoni
Caso 41bis, l’isola come braccio duro dello Stato: la storia si ripete

Nel 1992 arrivarono all’Asinara 154 detenuti per reati di mafia, poi anche Totò Riina

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Sassari È una storia che si ripete. Dall’Asinara fino a oggi. Dal 1992 quando il regime penitenziario 41bis è stato introdotto come misura straordinaria per contrastare la criminalità organizzata. In particolare l’isola che ricade nel territorio comunale di Porto Torres che aveva in quel periodo dismesso le strutture di Fornelli - temutissime dai capi della criminalità organizzata - venne rimessa al centro della lotta alla mafia. Dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, il supercarcere venne riaperto a pieno regime per accogliere appunto i 41bis. Fu il primo passo per sperimentare l’efficacia degli strumenti ritenuti necessari per interrompere i collegamenti tra i detenuti mafiosi e le organizzazioni esterne.

«Se non ci fosse stata l’uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta non so se il Parlamento avrebbe mai approvato la conversione in legge del 41bis. La strage di Capaci non era bastata». Claudio Martelli, esponente socialista, era ministro della Giustizia quando all’indomani delle stragi del ’92 fu istituito il 41bis per i mafiosi. «Non si tratta di una misura punitiva, ulteriormente afflittiva rispetto alla pena da scontare, che sarebbe incostituzionale, ma di una misura preventiva il cui scopo è recidere i rapporti tra i mafiosi detenuti nelle carceri e la loro organizzazione fuori dal carcere. È per questo che la proposi. Erano gli anni in cui i boss comandavano dalla galera», disse il ministro.

Martelli firmò i primi provvedimenti del 41bis (per 37 detenuti) il giorno dopo la strage di via D’Amelio nella quale persero la vita anche gli agenti della scorta di Paolo Borsellino, tra cui Emanuela Loi. Introdotto come misura temporanea, il 41bis venne trasformato in misura permanente dieci anni più tardi e nel 2009 subentrarono ulteriori restrizioni compresa quella della limitazione dei colloqui con i familiari.

Il carcere dell’Asinara ha rappresentato sicuramente il luogo dove il 41bis ha trovato l’applicazione più decisa, complice il doppio isolamento e le difficoltà nei trasporti e nelle comunicazioni.

La riapertura di Fornelli fu caratterizzata da ritmi caotici: in pochi giorni arrivarono con voli speciali dedicati 154 boss. Il trasferimento avvenne a gruppi di 50, con gli elicotteri. L’Asinara si risvegliò improvvisamente come braccio duro dello Stato, perché fino al 1991 era rimasta come colonia penale agricola con detenuti cosiddetti “comuni”.

L’Asinara - nell’interesse dello Stato, come il libro inchiesta di Vittorio Gazale che proprio in questi giorni ha vinto il premio Piersanti Mattarella - venne scelto come luogo esemplare per fare pagare i conti ai boss. E infatti tra quelli che sbarcarono nell’isola-carcere ci fu anche il capo dei capi Totò Riina. Per lui venne disposto un isolamento (anche diurno) ancora più severo rispetto a quello riservato agli altri detenuti del 41bis. Appena sceso dall’elicottero, realizzato il luogo dove era stato inviato, il boss si mise le mani sulla faccia.

Diversi i detenuti che all’Asinara scelsero la strada della collaborazione, tra i primi Santino Di Matteo. L’Asinara ha chiuso il carcere nel 1998, è diventato Parco nazionale. Ma in più riprese ci sono stati tentativi da parte del ministero e del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di riattivare il carcere. Progetti falliti grazie alla progressione del Parco nazionale che non ha più lasciato spazio a ripensamenti.

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