La Nuova Sardegna

Sassari

Ebola a Sassari, il cooperante guarito: ecco come ho sconfitto il virus

di Giovanni Bua
Stefano Marongiu alla Nuova Sardegna
Stefano Marongiu alla Nuova Sardegna

Stefano Marongiu racconta la sua lotta contro la malattia e risponde alle polemiche: ho temuto di morire ma mai nessun altro ha corso rischi

25 giugno 2015
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SASSARI. Guarderà la “sua” Dinamo alla televisione. E si godrà per qualche altro giorno l’affetto di mamma e sorelle, in attesa di ributtarsi nel lavoro di infermiere al 118 di Sarroch.

Non vede l’ora Stefano Marongiu, il cooperante di Emergency di 37 anni che per 28 giorni ha lottato contro la Malattia del Diavolo nell’ospedale Spallanzani di Roma. Per la prima volta dal 10 maggio, la sera in cui la febbre è salita ed Ebola ha fatto capolino nel suo organismo, si sente veramente bene. Almeno nella testa, e nel cuore. «I muscoli ancora sono doloranti, ma d’altronde quella contro cui ho combattuto è davvero una brutta bestia di un incredibile nella sua complessità. Spaventosa per quanto è in grado di essere letale. Domani ne parleremo a Cagliari nel congresso nazionale di Emergency. C’è tanto da raccontare».

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Secondo italiano ad aver contratto Ebola. Primo europeo ad essersi ammalato fuori dall’Africa. «Una bella sfortuna – scherza Stefano, rientrato nell’isola lo scorso 10 giugno –. Ma alla fine io sto bene, e anche i miei cari. E, nonostante le polemiche e qualche parola di troppo, alla fine si è dimostrato che le cose sono state affrontate in maniera molto seria da tutti. E che molte sono le persone, tra la mia Sardegna e il mondo intero, che debbo ringraziare».

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Polemiche da cui Stefano è stato il più possibile protetto. Ma che ora, a mente fredda, smonta pezzo per pezzo. «Iniziamo dal mio viaggio – spiega – mai mi avrebbero fatto partire da Goderick, in Sierra Leone, sei ci fosse stato anche il minimo dubbio. E comunque sono stato controllato due volte all’aeroporto, prima di entrare e prima di salire a bordo. Poi ho fatto una tappa a Casablanca, in Marocco. Dove allo sbarco sono stato controllato con camere termiche. E infine a Fiumicino, dove il medico è salito a bordo prima dello sbarco».

Nessuna smagliatura insomma, nemmeno nel passaggio Roma-Alghero. «Asl di Sassari e Cagliari erano avvisate del mio arrivo. E a loro ho comunicato l’automonitoraggio della mia temperatura corporea,2 volte al giorno, fino a domenica sera, quando è arrivato il primo malessere e mi sono messo in completo isolamento». Fino ad allora il virus non era attivo. «Dopo allora tutte le fasi riguardanti il mio trasporto e la mia degenza a Sassari e poi il mio trasferimento allo Spallanzani sono state gestite al meglio e con grande entusiasmo».

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Compresi i “selfie” che molti, ministro compreso, hanno condannato al momento del suo trasferimento da Malattie infettive: «Non ci ho fatto molto caso. Era una cosa nuova per tutti. Sono sicuro che se si dovesse ripetere starebbero un po’ più attenti. Ma le foto non sono andate in giro, e sono propenso a credere, visto che era una clinica universitaria, che siano state scattate a scopo didattico. Certo, comunque, che se ci sono delle regole, è necessario rispettarle».

Nessuna comprensione invece per la violazione della privacy della sua famiglia. Con il deputato Mauro Pili che, denunciando i presunti ritardi nella bonifica dell’appartamento di famiglia, ne ha anche divulgato l’indirizzo esatto. «Trovo incredibile che una cosa così delicata possa essere strumentalizzata. Spero che chi lo ha fatto ne risponderà. Certo è che lo smaltimento della biancheria e del materasso della mia camera, e la sanificazione dell’appartamento, è stata fatta come da protocollo. Non c’è mai stato nessun pericolo di contagio nelle aree comuni. Nessuno ha corso alcun rischio, e i miei familiari, che hanno trascorso la quarantena in campagna, si sono addolorati che qualcuno lo possa aver pensato. Per quanto riguarda poi l’ignoranza e l’aggressività di alcuni commenti sulla rete purtroppo c’è ancora molto da informare, e da formare. E comunque la gente spesso è meno peggio di come vuol sembrare».

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Allo Spallanzani poi è iniziata una battaglia lunga, e dall’esito incerto: «Quando a Sassari mi hanno detto che era Ebola un po’ me lo aspettavo – racconta – troppo evidente l’ emorragia congiuntivale. Mentre mi portavano via da casa avevo scostato mia madre che voleva abbracciarmi. Ci ho pensato tante volte. Ho pensato che se fossi morto non avrebbe potuto nemmeno riavere il mio corpo, che sarebbe stato cremato. Ho avuto paura di non farcela. Ma anche da subito la certezza che se c’era un luogo dove potevo uscirne vivo era proprio allo Spallanzani. Li avevo visti all’opera in Africa. Avevo ragione».

Quasi un mese in isolamento, 70 persone al lavoro 24 ore su 24. Un primo peggioramento dopo due giorni, una ricaduta. Nel mezzo: «Tante telefonate, con i parenti, qualche amico. Gino Strada e tutto lo staff di Emergency. Eccezionali. In Africa per arginare Ebola, curandola con in loco con i massimi strandard occidentali. Una visione, un faro per l’umanità».

Poi tanta tivvù, per ammazzare le ore. «Ma la Dinamo non si vedeva. E pensare che la guardavo in streaming in Sierra Leone. Ma stasera non me la perdo. Mi fanno star male quasi più di Ebola, mi fanno sentire a casa».

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