La Nuova Sardegna

Sassari

Alina Cossu chiede giustizia, non piazze - PARLIAMONE

Daniela Scano
Alina Cossu
Alina Cossu

L’assassino è ancora libero e i familiari della ragazza di Porto Torres non possono neppure tollerare il pensiero che il giorno della intitolazione di una via ad Alina, questa persona possa essere tra la folla che di certo accorrerebbe per assistere all’evento

27 novembre 2016
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I familiari di Alina Cossu hanno ragione a rifiutare l’intitolazione di una via o di una piazza alla loro figlia e sorella. Lo fanno almeno una volta l’anno da quando l’assemblea generale delle Nazioni unite ha istituito la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Da allora il nome di Alina è sempre il primo, nel bollettino della sanguinosa guerra combattuta anche in Sardegna sulla vita delle donne. È il primo perché in quasi 28 anni Alina non ha avuto giustizia e questa è considerata, nella atrocità del femminicidio, una supplementare ingiustizia ai suoi danni e dei suoi cari.

L’assassino di Alina Cossu è ancora libero e i familiari della ragazza di Porto Torres non possono neppure tollerare il pensiero che il giorno della intitolazione di una via ad Alina, questa persona possa essere tra la folla che di certo accorrerebbe per assistere all’evento. Presente, magari in disparte, perché tutti lo vedano e nessuno sospetti per la sua assenza.

Ma c’è di più. Questa dignitosa famiglia non può accettare l’idea che, oltre l’assassino, partecipi anche solo come comparsa alla celebrazione di Alina anche chi ha protetto chi l’ha trucidata, chi ha avuto ragione di sospettare di lui ma non ha parlato.

I fratelli e i genitori di Alina hanno ragione. Porto Torres non è una metropoli e lo era ancora meno nel settembre del 1988 quando Alina venne prelevata in una delle principali vie della città, portata in un luogo chiuso, massacrata di botte e poi strangolata prima di essere lanciata, forse ancora viva, dalla scogliera di Balai. Prima di farla precipitare nel vuoto, sperando che tutti pensassero che si fosse suicidata, il suo assassino colpì Alina al volto con un calcio che lasciò l’impronta di una scarpa. Nonostante questo evidentissimo segno sul corpo, all’inizio le forze dell’ordine riuscirono a commettere tutti gli errori del manuale di ciò che non si dovrebbe mai fare su una scena del crimine. Diciamolo, l’assassino è stato fortunato e per questo è ancora libero di circolare nella città di Alina e della sua famiglia.

Se fosse stato arrestato subito dopo il delitto, a quest’ora l’omicida avrebbe forse finito di scontare la sua pena anche se la corte d’assise lo avesse condannato all’ergastolo. Invece è libero e i familiari di Alina continuano ad aspettare giustizia per una figlia e una sorella che amavano, che amano, sopra ogni cosa. Per chi non l’ha conosciuta, Alina è solo un nome in cima alla lista del femminicidio, una foto in bianco e nero di una ragazza con i jeans a vita alta che i corsi e i ricorsi della moda hanno riportato sulle passerelle.

Per il suo assassino, per chi lo ha protetto, per chi non lo ha denunciato, l’unica “pena” da scontare è forse il ricordo di Alina il cui nome ogni 25 novembre viene evocato in tutta l’isola da donne di tutte le età.

Alina vive nel ricordo di chi l’ha amata e perseguita la coscienza di chi, pur conoscendo il segreto della sua morte, non lo svela per dare finalmente pace alla sua famiglia. Forse, se e quando Alina avrà avuto giustizia, i suoi fratelli e gli anziani genitori accetteranno anche una via a suo nome.

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