La Nuova Sardegna

Sassari

«Mio figlio era sicuro: a Pasqua sarò a casa. E ora chi glielo dice?»

di Luigi Soriga
«Mio figlio era sicuro: a Pasqua sarò a casa. E ora chi glielo dice?»

Il padre di Paolo Pinna, condannato a vent’anni per gli omicidi di Gianluca Monni e Stefano Masala: non ha fatto nulla, è solo un ragazzino. Il processo doveva farsi a Roma, qui c’è troppa pressione

08 aprile 2017
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SASSARI. L’atrio del tribunale dei minori è un traliccio d’alta tensione. L’ansia ha una densità che si appiccica ai volti, ai gesti ripetitivi, ai passi insistiti sulle stesse mattonelle. Perfino le pareti ne sono impregnate.

I familiari di Paolo Pinna, Gianluca Monni, e Stefano Masala alle 15,45 sono dentro l’aula. Dalle finestrelle in vetro si intravede il giudice che stringe tra le mani la sentenza. Quel foglio sottile ha il peso di un destino. Un minuto dopo da quel corridoio sbuca il padre di Stefano Masala: è commosso, ha gli occhi lucidi. A passi svelti guadagna l’uscita, come stesse riemergendo da un tunnel scuro, da un incubo.

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Piangono tutti, si abbracciano, qualcuno singhiozza. E sono lacrime che risalgono dal profondo. Una sostanza liquida fatta di tristezza, rabbia, apprensione, incertezza e forse anche sapore di giustizia. Vien fuori anche Pasquale Monni, il fratello di Gianluca. Occhi neri e grandi, ciglio completamente asciutto, barba, e un’impenetrabile garza di pensieri e introversione. E poi Roberto Pinna, padre di Paolo. Ha i lineamenti scolpiti nella pietra, scuro in volto, cammina con le mani in tasca, avanza lento e ciondolante. Sa di avere tanti sguardi addosso, ma gli colano sopra come acqua sul marmo. Anche una sentenza così dura non è riuscita a scalfire la sua scorza. Si rivolge ai carabinieri: «Oggi è stato smentito il vostro lavoro e le cose riferite dal vostro capitano Luigi Mereu: è lui che aveva detto che Stefano Masala era a Orune, in quella macchina. E siete stati voi a dichiarare che i cani molecolari l'hanno individuato anche dopo quell'omicidio, anche in paese. Ma queste cose evidentemente non contano. Adesso aspettiamo le motivazioni. E mi auguro siano valide, per giustificare una sentenza simile».

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Poi per la prima volta si ferma davanti ai giornalisti e si sfoga: «L’ultima volta che abbiamo parlato con Paolo è stato sabato scorso. Gli abbiamo detto: per Pasqua ti portiamo l'uovo. E lui ci ha risposto così: mamma che dici? Io a Pasqua sono a casa, con voi. E adesso chi glielo dice a questo ragazzino?» Perché agli occhi di un padre sempre di un ragazzino si tratta. «Aveva sedici anni il giorno di quella rissa puzzolente. Ora ne ha diciotto, sta crescendo ma resta un ragazzino in carcere. Che continua a ripetere: ma perché mi trovo qui da dieci mesi se non ho fatto nulla?». E ancora: «Ci hanno provato per un anno e mezzo a pressare questi ragazzi sperando che dicessero qualcosa. Ma non possono dire niente perché non sanno niente. Mio figlio non c'entra. Gli inquirenti cercano di utilizzare i litigi e le discussioni che il ragazzo ha avuto con me e con la mamma. Ma è normale, da bravi genitori quali siamo, ci preoccupavamo della situazione, di quello che la gente diceva, volevamo arrivare alla verità, venirne a capo prima di finire qui».

Poi scuote la testa: «Questa sentenza in fondo ce l'aspettavamo: d'altronde se non l'avessero condannato sarebbe crollato anche il processo di Nuoro. Il processo andava fatto a Roma, qui c'era troppa pressione, l'opinione pubblica aveva già deciso. C’è quel ragazzo scomparso, c’è la disperazione dei familiari. L’unico a cui nessuno pensa è Paolo, condannato a stare altri vent’anni in galera da innocente. Anche noi, a nostro modo, abbiamo perso un figlio. Ma non finisce certo qui. Andremo in appello, e anche in Cassazione se sarà il caso, e se non bastano due avvocati ce ne saranno quattro. Se questo giudice ci ha dato torto, altri ci daranno ragione».

Poi la figlia gli lancia un’occhiataccia. È distrutta, quasi non si regge sulle gambe. La sorregge la mamma, che ha ancora la fierezza di trattenere il pianto. «Andiamo via di qui», dice al padre. Ha gli occhiali da sole, le lenti scure. Ma troppo sottili per nascondere la disperazione.

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