La Nuova Sardegna

Sassari

Guardoni ma sordi davanti al dolore

di Daniela Scano
La fontana di Rosello vista dal ponte
La fontana di Rosello vista dal ponte

Il caso del ponte del Rosello: le inascoltate vite degli altri

13 maggio 2017
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SASSARI. L’addio senza spiegazioni di una persona cara lacera l’anima di chi resta. Quella ferita non si rimarginerà mai. Chi è direttamente coinvolto merita tutela e parole competenti da parte di chi è in grado di aiutarlo. Dovrebbe invece restare in un silenzio rispettoso chi, non sapendo, non può esprimere giudizi. Ma il silenzio può e deve essere riempito di contenuti.

Ci sono episodi, come quello accaduto sul ponte Rosello, che non possono essere archiviati come fatti di cronaca. Sono bagliori inaspettati sulla solitudine, sulla disperazione, su realtà che sfioriamo tutti i giorni senza rendercene conto e che invece all’improvviso siamo costretti a vedere. Il nostro coinvolgimento emotivo ci sgomenta e ci coglie impreparati anche perché lo avevamo perso. Stiamo ascoltando il dolore altrui.

Viviamo nella società interconnessa, dove sappiamo tutto di tutti e in realtà non sappiamo niente di nessuno. Attraverso i social, vediamo in tempo reale cosa stanno facendo gli altri in ogni istante della loro giornata. Se uno degli “amici” di Facebook entra nel nostro raggio di azione, il cellulare ci avverte che lei/lui è nelle vicinanze. Con un post su Facebook chiunque può entrare nella nostra vita e perfino nella nostra morte, come purtroppo è accaduto l’altro giorno sul ponte Rosello. Siamo diventati guardoni delle “vite degli altri”. Abbiamo raggiunto il punto più alto della conoscenza del nostro prossimo ma ci manca qualcosa. Noi non sappiamo più ascoltare.

Questa rubrica si chiama “parliamone”. Ricordo la discussione con il direttore e con gli altri colleghi quando decidemmo di darle un nome e optammo per quello che stimolava il dialogo, il confronto, anche lo scontro purché civile. La scegliemmo perché parlare è importante. Altrettanto importante è ascoltare. Quante volte, durante una conversazione, aspettiamo con impazienza che l’interlocutore finisca di parlare per dire la nostra. Siamo così concentrati sul nostro punto di vista da non renderci conto che quello che stiamo vivendo non è il tempo dell’ascolto. È il tempo dell’attesa: che l’altro finisca di parlare, che arrivi l’occasione per dire la nostra, che qualcuno ci dia ragione o perlomeno che si renda conto che non abbiamo torto. Viviamo nel desiderio spasmodico di essere ascoltati senza avere realmente ascoltato ciò che gli altri hanno da dirci.

Così come si insegna loro a parlare, bisognerebbe insegnare ai bambini ad ascoltare. Capirebbero che anche il silenzio di una persona cara, di un conoscente, di un collega, può dire qualcosa. Sapere parlare è una qualità, sapere ascoltare è un dono.

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