La Nuova Sardegna

Sassari

Caro Daverio rispetta i pastori della Gallura

Gavino Minutti
Philippe Daverio
Philippe Daverio

Altro che "meno evoluti". Lo stazzo è presidio di civiltà. Luogo umile, sì, ma di libertà, indipendenza, resistenza. E di gioia, tra feste e balli - L'INTERVENTO

20 febbraio 2018
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Gentile Philippe Daverio, non so da quali esperienze o letture abbia tratto un così brutto e sbagliatissimo giudizio sui pastori della Gallura. L’altro giorno in una tv italiana li ha definiti primordiali, «i meno evoluti», pari a quel pezzo di cultura islamica che oggi si esprime attraverso azioni terroristiche, aggiungendo che se nel cristianesimo avesse prevalso la cultura di quei pastori, oggi ci troveremmo difronte certamente una società peggiore di quella attuale. Che enormità. Nessuno si era ancora spinto così tanto. Ci sarebbe quasi da sentirsi lusingati. Certo, per un intellettuale, non c’è peggior insidia del pregiudizio. Invece le assicuro che i pastori galluresi non sono come lei dice, «i meno evoluti». Anzi, semmai esattamente il contrario. Lei non ha coscienza di quanto afferma, anche nell’utilizzo di quella scorretta similitudine che ci troveremmo di fronte un cristianesimo degenerato, se a prevalere fosse stata una cultura primordiale come quella dei pastori di Gallura.

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Allegoria per similitudine, voglio provare a spiegarle cos’è stato «il pastore gallurese». Dico «è stato» perché da diversi decenni sono scomparsi, un po’ come gli uomini di cultura seri, sempre più rari. Fin dal milleseicento il pastore gallurese ha messo sotto lo stesso tetto il raccoglitore di frutti e il custode di greggi. Il guardiano di armenti e il contadino. È quanto hanno fatto in Gallura i pastori con gli stazzi. Per utilizzare la metafora biblica, ha realizzato l’unione dell’uomo della campagna con l’uomo delle tende, il sedentario con il transumante. Ha riconciliato la materialità del lavoro della terra con l'immaterialità dell’esistenza errante, dopo la scissione consumata dal fratricidio. Prima di allora nessuna umanità l’aveva mai fatto. Ci pensi, rifletta, vedrà quanto bella è questa immagine. Scavi, non si fermi ai luoghi comuni. Vedrà che ci troverà l’encausto nascosto dal volgare strato di malta bastarda e scoprirà quanto ormai banale e becera sia la vulgata italiana sui pastori e sui sardi pelliti. Ma no che non siamo offesi, per carità. Siamo addestrati alle sopraffazioni, e tra le peggiori, c’è proprio il (pre) giudizio arbitrario sulla nostra storia e sulla nostra cultura. Ma non temiamo, lo stazzo ci ha resi forti e liberi. Perché lei non sa che lo stazzo era spazio di solidarietà, accoglienza. Il nostro bastione. Luogo di ospitalità per tutti, rifugiati e mendicanti, ricercati e viandanti. Chiunque era scaldato e nutrito. Luogo umile, sì, ma di libertà, indipendenza e resistenza, un po’ come nella dottrina della “teologia della liberazione”, ancor prima che venisse fatta propria da una parte della Chiesa cristiana.

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Ad esempio, lei non sa che i pastori galluresi vivevano in una sorta di distretto confederato, dove si scambiavano aiuto, assistenza e donazioni di beni o lavoro. Che non erano forme di baratto, ma reciproci atti di liberalità. Vincolo morale, d’appartenenza, e rispondeva al principio morale che il cibo e le cose si dividono. Chi ha, deve dare. Dare dunque qualcosa che non doveva essere pagata, che non poteva altresì essere comprata, perché bene non in vendita. Questo stava alla base dei rapporti sociali tra i pastori della campagna gallurese. I pastori galluresi non sono primitivi, come lei dice con leggerezza. Le loro dimore sono realizzate nell’austera radura sottratta alla boscaglia, innalzando costruzioni di pietra con rispetto e sapienza ecologica e paesaggistica da farci ancora tanta invidia. Uomini e donne che hanno dato vita alle famiglie, a una trama di naturali relazioni che a ogni occasione non si privava mai del piacere della festa, della poesia e del canto. E del ballo, la cosa amata. E su ogni uscio di casa veniva piantato un albero di mandorlo e di pesco, per vestire di effimera grazia la ruvida pietra nuda.

Signor Daverio, l’ho sempre pensata uomo valente. Torni in quella tv e dica che quella brutta cosa le è proprio sfuggita, frutto di comportamento condizionato da una cultura come quella italiana, che di questa terra non ha mai proprio capito nulla. Chieda scusa non a un popolo, che penso non sia troppo risentito dalle sue parole, ma a una civiltà e alla sua cultura. Da uomo di cultura, come viene considerato.
 

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