La Nuova Sardegna

Sassari

Violenza sessuale sul web, imprenditore sassarese condannato a 8 anni

Nadia Cossu
Violenza sessuale sul web, imprenditore sassarese condannato a 8 anni

L'uomo, 40 anni, aveva ingannato una undicenne e la ricattava. Le minacce alla piccola: «Se non fai i filmati veniamo a prenderti, sappiamo dove abiti perchè il tuo indirizzo è su Facebook»

29 ottobre 2019
3 MINUTI DI LETTURA





SASSARI. Un uomo dalla genialità diabolica, così aveva definito la Procura di Milano un imprenditore sassarese di 40 anni – specializzato nell’adescare bambine sui social – finito a processo per reati pesantissimi che vanno dalla violenza sessuale sul web (aggravata) alla detenzione e divulgazione di materiale pedopornografico, per continuare con la diffamazione, la corruzione di minorenne e la sostituzione di persona. Accuse che nel giro di pochi mesi sono valse all’imputato la condanna in primo grado a dodici anni di carcere e, pochi giorni fa, quella in appello a otto.

La pena in questo caso è stata ridotta perché la corte ha condiviso il riferimento fatto dall’avvocato difensore Antonio Secci all’ultimo comma dell’articolo 609 bis del codice penale che prevede «nei casi di minore gravità» che la pena sia «diminuita in misura non eccedente i due terzi». E nel caso specifico la “minore gravità” è data dal fatto che tra vittima e carnefice non c’è stato un contatto fisico.

La violenza si è consumata attraverso una webcam installata sui computer ma i due non si sono mai incontrati. Si tratta, sicuramente, di una delle prime sentenze per violenza sessuale sul web. La vittima (all’epoca undicenne) era caduta in una trappola infernale. L’ingenuità tipica di quell’età l’aveva spinta a credere di aver fatto amicizia con due coetanee, per poi scoprire non solo di avere a che fare con una persona adulta ma, peggio ancora, con un uomo. E quando si è ribellata di fronte alle richieste di quest’ultimo è cominciato l’incubo. Con le sue competenze informatiche, l’imputato aveva escogitato un metodo “sofisticato” per agganciare e ricattare l’undicenne. Fingendosi, cioè, una bambina di dieci anni era riuscito a ottenere su facebook l’amicizia della vittima prescelta, che vive nel Milanese.

Dopo aver conquistato la sua fiducia (anche perché lei era sempre convinta di chattare con quella nuova amica conosciuta sul web) l’aveva costretta a guardare dei video pornografici – che ritraevano due bambine mezzo svestite e due uomini nudi – e poi a spogliarsi e compiere atti di autoerotismo che prevedevano anche l’introduzione di oggetti nelle parti intime (da qui la contestazione della violenza sessuale). Tutto sotto minaccia: «Se non lo fai veniamo a prenderti, sappiamo dove abiti perché l’indirizzo è tra le informazioni del tuo profilo facebook». E lei, terrorizzata, aveva obbedito. Ma un certo punto aveva detto “no”.

La reazione al suo rifiuto è stata l’immediata divulgazione del video. Le indagini della Dda erano partite dopo la denuncia presentata ai carabinieri dalla sorella maggiore della vittima. La ragazzina, infatti, aveva scoperto che il 40enne aveva trasmesso il video che la ritraeva nuda a una sua coetanea, oltre che amica (agganciata dall’imputato sempre attraverso Facebook). Quest’ultima aveva poi inoltrato il link a un compagno di classe e in pochi giorni molti studenti lo avevano a disposizione nello smartphone. Durante un’audizione protetta, l’undicenne aveva raccontato la vergogna, la paura. E aveva puntato il dito contro quell a che considerava la sua amica del cuore: «Mi ha tradito, è tutta colpa sua, se non avesse inviato quel video nessuno lo avrebbe visto».

Questo perché il consulente del pm incaricato di analizzare i pc della ragazzina, della sua “amica” e dell’imputato ha trovato sì il link incriminato ma del video non c’era più traccia. Era stato distrutto. All’imprenditore sassarese erano arrivati attraverso Skype che aveva fornito agli inquirenti il codice IP (l’anima del pc) e così erano riusciti a risalire all’abbonato Telecom. L’avvocato Secci, che presenterà ricorso per Cassazione, insiste sul fatto che il suo assistito non possa essere considerato colpevole solo per il fatto di essere proprietario del pc cui altri potevano accedere. Mancherebbe, in sintesi, la “prova specifica”, ossia quella che consente di attribuire con certezza il reato all’imputato.

In Primo Piano

VIDEO

Il sindaco di Sassari Nanni Campus: «23 anni fa ho sbagliato clamorosamente. Il 25 aprile è la festa di tutti, della pace e della libertà»

L’intervista

L’antifascismo delle donne, la docente di Storia Valeria Deplano: «In 70mila contro l’oppressione»

di Massimo Sechi
Le nostre iniziative