La Nuova Sardegna

Sassari

Femminicidio ad Alghero: «Ammazzare Michela era l’ossessione di Tilloca»

Nadia Cossu
Femminicidio ad Alghero: «Ammazzare Michela era l’ossessione di Tilloca»

Depositate le motivazioni della sentenza di condanna a 30 anni per l’uxoricida. Il gup: «L’amore è passione e può degenerare nel dolore ma mai nell’uccidere»

27 novembre 2019
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SASSARI. «L’amore è una passione che, tuttavia, normalmente può degenerare e perdersi nel dolore, spesso reciproco, ma mai nell’uccidere».

È una premessa doverosa, nobile, che deve suscitare una seria riflessione quella scritta nero su bianco dal giudice che il 24 ottobre ha condannato Marcello Tilloca a trent’anni di carcere per l’omicidio della moglie Michela Fiori.

Le motivazioni. Il gup Michele Contini – nelle motivazioni della sentenza emessa a conclusione del rito abbreviato – parte dalle innumerevoli “dichiarazioni confessorie” fatte dall’imputato sia subito dopo il delitto che durante il processo e traccia la “peculiare” (così la definisce) personalità dell’uxoricida. «Oltre che nelle missive prodotte nel corso del giudizio – scrive Contini – anche in sede di dichiarazioni spontanee rese all’udienza del 24 ottobre 2019, egli non ha manifestato alcun pentimento per quanto accaduto». Dichiarazioni durate quasi un’ora nelle quali Tilloca «si è limitato e concentrato esclusivamente sulle condotte e sulla personalità della moglie, “colpevole” (a suo dire ndc) di averlo ripetutamente tradito. Nessun dettaglio è stato fornito sulle modalità dell’omicidio. Secondo la sua ricostruzione dei fatti, Michela Fiori è stata una moglie infedele, legata a lui esclusivamente per questioni economiche». Parole e ragionamenti indirizzati a un’unica conclusione. La sua ovviamente: «La morte della donna è stata la conseguenza, necessaria, di tali pluralità di fattori...».

La gelosia. «Io mi farò la galera ma lei mangia terra”. Così diceva Tilloca a un amico al quale aveva confidato i suoi sospetti circa il presunto tradimento della moglie: «Io a Michela la uccido! Non sopporterei di vederla con un altro uomo. Io ormai ho perso quasi tutto, non ho una casa, non ho un lavoro (...) L’altro giorno volevo strangolarla davanti ai bambini ma mi sono trattenuto. La prossima volta lo faccio anche davanti bambini».

L’occasione scatenante. Un proposito omicida che era diventato «una vera e propria ossessione – scrive ancora il giudice – L’imputato ha atteso soltanto l’occasione scatenante». Che, nel caso specifico, è stata questa: la sera prima del delitto Michela – che già da tempo non viveva più con il marito – rientrò tardi a casa. Tilloca, il 23 dicembre, le chiese spiegazioni su come e con chi avesse trascorso la serata precedente ma evidentemente la risposta non lo aveva soddisfatto. Ed è lui stesso, nella sua confessione, a dirlo. «Io mi sono arrabbiato e ho preso un coltello della cucina per minacciarla e per farmi dire dove fosse stata e se avesse una relazione con un’altra persona. Al momento non volevo farle male ma solo spaventarla e avere una risposta...».

La rabbia. Poi la rabbia è diventata incontenibile: «L’ho afferrata da dietro con il coltello in mano (...) Mia moglie, intuendo che ero determinato diceva “ti dico tutta la verità”, ripetendolo diverse volte. Lì ho capito che i miei sospetti erano fondati ma ormai, dopo aver avuto la conferma, ho continuato nella presa. Questa convinzione ha scatenato la mia rabbia». Nonostante ci fosse un’udienza di separazione già fissata per il 15 gennaio.

L’omicidio. Poi i terribili attimi successivi: la colluttazione, il coltello che cade per terra, lui che le tappa la bocca con una mano per non farla urlare «e poi con tutte e due al collo per farla smettere. Ho stretto con molta forza e con molta rabbia per cercare di soffocarla». Ma Michela resisteva, era aggrappata alla vita: «Allora ho preso un laccio da terra e l’ho stretto al collo di mia moglie». Finché Michela non ha smesso di respirare.

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