La Nuova Sardegna

Sassari

Gli orizzonti perduti dei ristoranti

di Roberto Sanna
Gli orizzonti perduti dei ristoranti

Piero Careddu racconta il momento del settore tra crisi e regole astruse: «Viviamo nell’incertezza»

06 maggio 2021
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SASSARI. Zona gialla, zona arancione, asporto, delivery, distanziamento, tavoli all’aperto, chiusure immediate, menu modificati, dispense reinventate. L’era del covid per il settore della ristorazione ha portato, oltre alla crisi, una confusione totale di regole all’interno delle quali è difficile districarsi. E con un orizzonte indefinito anche adesso che si parla di possibile zona gialla e quindi riapertura: «Prima o poi ripartiremo, ma bisognerà vedere quanti saranno riusciti a tenersi in piedi» commenta Piero Careddu, uno dei decani della ristorazione sarda anche lui alle prese con questa situazione indecifrabile.

Come è cambiato il settore della ristorazione in questo ultimo anno?

«Posso fare l’esempio della mia situazione. Lo scorso giugno ho avviato un progetto nuovo che ha visto la trasformazione della Caffetteria Mannoni di via Asproni in un’enoteca bistrot dove venivano servite prevalentemente “tapas” e proposti vini naturali di piccoli produttori, sardi e non. Un progetto molto coraggioso che, devo dire, ha avuto un successo inaspettato. Durato poco: l’arrivo della seconda ondata ci ha costretto prima a lavorare solo a pranzo, poi le varie zone arancioni e rosse sono state la pietra tombale, non possiamo certo fare asporto. Devo anche dire che la nuova chiusura in Sardegna non mi ha sorpreso, all’origine ci sono comportamenti scellerati nel periodo di zona bianca. Sono cose che si giudicano a posteriori ma era facile prevedere che sarebbe andata così».

Come ci si destreggia in queste situazioni?

«Per noi è un disastro. Lavoravamo prevalentemente la sera, la gente veniva a fare l’aperitivo e poi con le tapas alla fine si poteva anche cenare. Aprendo solo a pranzo, abbiamo dovuto reinventare il menu tornando a fare un altro tipo di servizio. Inoltre siamo un’enoteca e lavoriamo prevalentemente coi vini, ma a pranzo la gente beve molto meno: abbiamo avuto un calo delle consumazioni dell’80 per cento. Questo cambia anche il modo di fare la dispensa e di conseguenza il rapporto coi produttori».

Si parla di nuova ripartenza. Come si può riorganizzare il vostro settore?

«Viviamo nell’incertezza. A dirla tutta, anche se so di andare controcorrente rispetto a molti miei colleghi, avrei preferito un mese di chiusura totale prima dell’estate. Un lockdown in tutta Italia a mio parere ci avrebbe consentito di trascorrere una stagione serena».

Per la riapertura avrete nuovamente regole diverse.

«Alcune di queste disposizioni mi lasciano esterrefatto. Non tanto per il coprifuoco, a mio parere un’ora in più o in meno non fa la differenza. Ma fare aprire all’aperto in maggio è assurdo, c’è ancora freddo, abbiamo ancora giornate di vento e pioggia. Anche aumentare le distanze tra i tavoli all’interno è improponibile: con due metri tra un tavolo e l’altro noi potremmo fare sei coperti al massimo. E onestamente non so quanti locali, dalle nostre parti, potrebbero permetterselo».

Vale ancora la pena di fare questo lavoro?

«Io lo faccio da trent’anni, mi sento un militante e penso che valga ancora la pena. Adesso ci vuole tanto coraggio ma servono persone, idee, fantasia, creatività. Molti crollano presto perché vogliono accontentare tutti, per me invece bisogna fare una sola cosa e farla bene. Puoi fare vegetariano o fusion, per dire, ma devi concentrarti su quello senza mescolare stili diversi. Altrimenti fai due anni, come si suol dire, “a bomba” , e poi crolli».

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