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Islanda, dove tutti giocano a pallone e si sentono vichinghi

di Paolo Carletti

Non c’è niente di paragonabile alla leggendaria Islanda. Non è paragonabile la Grecia del 2004 che vinse non si sa come, ma neanche la Danimarca che nel 1992 dopo l’esclusione dell’allora Jugoslavia...

29 giugno 2016
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Non c’è niente di paragonabile alla leggendaria Islanda. Non è paragonabile la Grecia del 2004 che vinse non si sa come, ma neanche la Danimarca che nel 1992 dopo l’esclusione dell’allora Jugoslavia (in guerra) fu richiamata dalle spiagge e senza preparazione trionfò in Svezia. No perché l’Islanda che ha fatto fuori i maestri dell’Inghilterra nell’ottavo di finale di lunedì, è un Paese minuscolo, di 330mila abitanti, con 21.500 calciatori professionisti che spesso vagano nelle serie inferiori della Gran Bretagna o degli altri Paesi nordici. Ma a tutto c’è una spiegazione, anche se non assoluta. Negli anni ’90 nell’isola che si protrae verso la Groenlandia, dove la vita è dura tra ghiacciai, neve, grandi vulcani attivi (ricorderete l’Eyjafjallajökull che nel 2010 mandò in confusione il traffico aereo europeo), i geyser sparsi ovunque, successe qualcosa di particolare che gettò le basi per le gesta leggendarie della squadra di Lagerback agli Europei di Francia.

Il governo decise di riempire l’isola, laddove era possibile, di campi di calcio per lo più al coperto. Gli islandesi sono innamorati del calcio, ma rischiavano anche di infilarsi in tunnel di alcol e droga nei lunghi e deprimenti inverni. Da allora tutti - o quasi - giocano a calcio. Anche le bambine. Seguiti tutti da ex calciatori. Non senza essere stati prima a capire bene, in Inghilterra, come era possibile giocare bene al calcio. C he storia, che paradosso! La stessa Inghilterra messa al tappeto lunedì.

È stata la loro terra a incoraggiarli, a forgiarli, a farli diventare i vichinghi 2.0. E per questo dopo le vittorie, gli islandesi si lasciano andare a 40 secondi di “Haka”, di danza ritmata con le mani insieme con il pubblico che li ha seguiti (il 10% della popolazione), che - così dicono - vuole essere un omaggio al brontolìo dei loro geyser. In testa, a guidare in campo e nella danza, il capitano Aron Gunnarsson, quello delle rimesse laterali da 30 metri, la barba da celtico, e i piedi poco dolci ma decisi. Sempre lui che chiese la maglia a Ronaldo nella gara d’esordio e si sentì rispondere “e tu chi saresti?”. Non la ottenne, Poi però i suoi compagni gliela fecero avere negli spogliatoi, mentre esultavano per il pareggio e CR7 continuava a irriderli amaramente. Ma lui l’ha presa quella maglia, con la forza dell’umiltà si vince in un Europeo e nella vita.

Fatta la storia, i successi, il folklore, c’è anche da ammettere il pressapochismo di chi si vende come grande esperto di calcio. L’Islanda nel girone di ammissione all’Europeo è passata come seconda, lasciando a casa l’Olanda. Capito bene? Non una squadra qualsiasi, anche se in crisi di gioco in quel periodo. L’Islanda sa giocare a pallone, difende bene, è concreta, è abituata dalla sua terra a cogliere l’occasione, perché magari un’altra non si presenterà. Gente tosta, di gran carattere, fisico e corsa. La Francia non compia l’errore fatale di sottovalutarli.

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