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Gigi Riva a cuore aperto: «Cagliari-Bari, il mio giorno più bello»

Enrico Gaviano
Gigi Riva a cuore aperto: «Cagliari-Bari, il mio giorno più bello»

Il bomber e lo scudetto del 1970: "Quell'impresa ha un valore immenso per me e per tutta la Sardegna che l'ha vissuta come una rivincita storica"

16 aprile 2020
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Squilla ripetutamente il telefono di Gigi Riva. Sono giorni di fuoco, lo cerca tutta Italia e lui si sottopone volentieri al fuoco di fila delle domande sulla squadra che fece l’impresa. «Sì, sono passati 50 anni da quel campionato – dice lui con la sua inconfondibile voce nasale –, e in mente mi viene che questo tempo è trascorso troppo in fretta».

Riva, se dico scudetto che pensa?

«La più bella soddisfazione della mia vita di sportivo. I gol, la nazionale, le vittorie, tutto bello. Ma niente in confronto alle sensazioni vissute in quei giorni».

Parliamo del giorno dello scudetto.

«Più che la partita, ricordo quello che è successo prima e dopo. Siamo andati a pranzo al solito ristorante, il Corallo, in via Napoli. Il proprietario, Antonio Sulis, diventava matto a causa dei nostri riti propiziatori: a fine pasto c’era il lancio di coltelli e forchette sulle porte della sala al primo piano. Guai non farlo, portava male. Gli infissi erano completamente rovinati. Anche quel giorno ripetemmo questa roba, la scaramanzia prima di tutto».

Il match?

«Scendemmo in campo molto concentrati. Lo stadio era pieno, l’entusiasmo straordinario. Feci gol io su passaggio di Brugnera e poi Gori chiuse il discorso. Solo allora capimmo che era fatta, perché eravamo sul 2-0 mentre la Juve perdeva ugualmente 2-0 a Roma».

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E poi?

«Mi misi in campo vicino all’ingresso del sottopassaggio, quando l’arbitro fischiò la fine schizzai subito via. Qualche problema lo ebbero gli altri compagni, soprattutto Albertosi che era in porta dall’altra parte degli spogliatoi...»

Quindi ci fu una grande festa...

»Ci abbracciammo tutti felici, cantammo a squarciagola. Scopigno parlava parlava, non si fermava più. Quasi la vittoria avesse eliminato per un giorno il suo carattere tranquillo e serafico. Andammo a cena in ristorante e da lì a casa di Arrica per completare la festa. Con noi c’era Walter Chiari, che era diventato un membro inseparabile del gruppo».

Ha parlato di Scopigno. Che ruolo ha avuto nella vittoria del Cagliari?

«Direi fondamentale. Parlava poco in genere, ma sempre al momento giusto. Era uno che sdrammatizzava e questo ci consentiva di sentire meno la pressione addosso. Eravamo un gruppo di giovani e quindi scherzavamo parecchio. Lui ci lasciava fare, ma bastava uno suo sguardo, un cenno, per far calare il silenzio nello stanzone o a tavola».

Ventuno gol e terzo titolo di cannoniere. Il suo contributo è stato decisivo...

«Da solo non avrei fatto un tubo. Vincemmo perché la squadra era perfetta».

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Quindi dovendo indicare un compagno di quella formidabile gruppo chi citerebbe?

«Quello dello scudetto, ripeto, era un gruppo fantastico. Se li prendiamo a uno a uno, ci accorgiamo che erano tutti dei fuoriclasse. Mi piace ricordare quelli che non ci sono più: Zignoli, Mancin, Nenè, che per me era come un fratello. E poi Martiradonna. Era un terzino implacabile. Scopigno lo prendeva in giro: Mario, con quel cognome non andrai mai in nazionale, gli diceva. Ma gli affidava sempre l’avversario più rognoso. E non sempre l’ala sinistra, come Chiarugi o Zigoni. No, anche le mezze ali. Una volta il mister gli disse di marcare Mazzola. Quando Martiradonna si avvicinò a inizio gara, Sandro lo guardò allarmato: ma mi devi marcare tu? Ho capito, oggi non tocco palla».

Quando avete avuto la sensazione di avere lo scudetto in tasca?

«Sicuro sicuro, solo alla fine di Cagliari-Bari, ma comunque il pareggio per 2-2 in casa della Juventus è stato il passaggio decisivo. Quella partita doveva dimostrare se avevamo o meno la personalità per poter arrivare in testa alla classifica sino in fondo. Il pareggio fu il risultato più giusto».

Anche se l’arbitro Lo Bello ne combinò di tutti i colori...

«Il rigore parato da Albertosi e fatto ripetere rischiò di farmi saltare il cuore. Mi avvicinai a lui e gli feci: signor arbitro, ci sta rovinando il campionato, mi dica cosa devo fare per farmi cacciare. Lui replicò: pensi a giocare... Poco dopo il 2-1 della Juve, diede un rigore anche a noi. Io lo segnai e poi mi avvicinai a Lo Bello che sorrideva e gli domandai: e se avessi sbagliato? L’arbitro rispose serafico: beh, l’avrei fatto ripetere...».

Forse il Cagliari avrebbe potuto vincere lo scudetto già nella stagione precedente, quando in attacco lei faceva coppia con Boninsegna.

«Era un bel tandem – fa lui facendosi sfuggire una risatina –. Segnavamo tanto. Anche quella squadra era forte, ma forse non eravamo convintissimi delle nostre forze, e forse abbiamo perso qualche partita di troppo... non per colpa nostra».

Arrica ha forgiato la squadra, cominciando con il portare Riva a Cagliari nel 1963.

«Lui è stato davvero uno degli artefici dello scudetto. Quando mi dissero che avrei giocato in Sardegna, inizialmente fui molto dubbioso. Poi quasi subito mi sono convinto che era la scelta giusta. Avevo perso prima mio padre e poi mia madre. Uscire dall’ambiente in cui avevo sempre vissuto è stata la cosa migliore»

Ma quello scudetto che valore ha?

«Per me immenso. Ma anche per tutta la Sardegna, che ha vissuto quella impresa come una rivincita storica. Al nord i tifosi avversari ci chiamavano pecorai e banditi, e noi ci sentivamo ancora di più parte del popolo sardo. E vincevamo... Davvero quello scudetto ne vale almeno tre di quelli che vincono Inter o Juve».
 

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