La Nuova Sardegna

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Così Riva ha rimesso i non peccati dei sardi

di Piero Mannironi
Così Riva ha rimesso i non peccati dei sardi

Il mito erroneo dei banditi, l’isolamento e un trionfo salvifico 

29 aprile 2020
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Con il passare degli anni la memoria diventa indulgente e i ricordi si illuminano della luce dolce e discreta della nostalgia. Perfino i dolori sembrano non mordere più il cuore. Parlare dello scudetto del Cagliari significa oggi parlare di come eravamo noi mezzo secolo fa. È come sfogliare il nostro libro del tempo e ritrovare così emozioni che credevamo perdute. Perché quell’evento è stato in ogni caso una parte della vita della mia generazione. Di sardi e di nuoresi. Si intreccia con le emozioni della scuola e dei primi amori, con la scoperta della politica e con le suggestioni della musica di Lucio Battisti e dei Beatles. Ci si specchia insomma in sentimenti vissuti e si ripercorre sul filo della memoria una stagione della vita.

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Era quello un tempo nel quale la televisione era meno invadente. E forse per questo anche più affascinante.

In quel piccolo schermo, che rassomigliava ancora un po’ all’oblò di una lavatrice, piccole ombre in bianco e nero cominciavano a rubare ai giornali l’esclusiva del racconto della vita. E così Luigi Riva da Leggiuno, non era più soltanto una foto retinata e un po’ impastata sulle pagine dei quotidiani, un'immagine immobile che faceva solo intuire una prodezza atletica. Le emozioni, raccontate in modo immaginifico dai giornalisti, fino a pochi anni prima unico filtro e motore della complessa alchimia dell’informazione, diventavano magicamente emozioni tue. La mediazione delle parole era sostituita dall’incanto dello spettacolo.

E in quelle immagini un po’ sfocate c’era la magia regalata da uomini capaci di incantare e di affascinare, trascinando molti tifosi al tradimento di antichi e consolidati amori calcistici. Gigi Riva, il “belluino Riva” come diceva il grande giornalista Gianni Brera, era così diventato l’amato e invincibile gladiatore degli stadi. Quell’uomo dallo sguardo triste incarnava infatti il mito dell'impavido Davide sardo che si batteva contro i Golia del calcio. Era l’inconsapevole uomo della provvidenza e del riscatto per un'isola prigioniera delle catene del pregiudizio. Erano infatti quelli gli anni del banditismo, di Graziano Mesina e dei baschi blu.

Così Gianni Brera, che col calcio sapeva anche fare poesia, raccontava il clima di quegli anni nell’isola: «Manlio Scopigno canta le laudi del suo campione senza ritegni filosofici di sorta. La Sardegna impazzisce per lui. I pastori vegliano sul gregge tenendo la radiolina all’orecchio durante le trasmissioni della domenica. Il vecchio stadio dedicato ad Amsicora, il Vercingetorige locale, non basta a contenere i tifosi che con ogni mezzo affluiscono a Cagliari dalle città e dai paesi più lontani dell’isola».

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Ed era vero. I più grandi di noi, ancora freschi di patente, si ficcavano dentro quelle minuscole scatole di lamiera che erano le Cinquecento Fiat, e partivano per Cagliari. Un viaggio interminabile, che era anche un’avventura, lungo la Carlo Felice di allora. Uno stretto budello d’asfalto che i nuoresi chiamavano con ironia la “strada dei rettilinei”

. E si arrivava infine all’Amsicora, il piccolo Colosseo dove i moderni gladiatori del Cagliari combattevano le loro battaglie sportive, che per la Sardegna erano anche battaglie d'orgoglio. Era l’arena infuocata nella quale Riva era come uno sciamano. Lui, atleta generoso e carismatico, guerriero indomabile, creava e dirigeva un rito collettivo con le sue magie brutali e selvagge. Ammaliava tutti con il suo egoismo devastante e la sua furia che sembrava esplodere da una misteriosa rabbia antica. Ma soprattutto era amato perché aveva scelto di essere sardo. E, si sa, nessuno come noi sardi sa amare chi vuole essere come noi e combattere per noi.

Come dicono con orgoglio i tifosi gallesi del rugby, nel loro stadio di Cardiff, il Millenium, nessuno può vincere. Al limite può solo segnare più punti di loro. Cioè la sconfitta, anche se arriva, non è comunque una categoria sportiva prevista. Questo era l’atteggiamento quando entravi all’Amsicora. Lì perfino campioni come il poeta della pedata Gianni Rivera o il genio pazzo Franco Causio o l’elegante Facchetti sembravano infatti muoversi all’ombra dell’unico vero gigante: Luigi Riva, il faro di una squadra che non rappresentava solo una città, ma una terra, una regione. Per alcuni, perfino una nazione.

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Erano anni bui e difficili, quelli. Sulle prime pagine dei quotidiani nazionali e nei telegiornali la Sardegna era rappresentata come un’isola violenta e arretrata, ai margini della storia del Paese. Il tumultuoso ’68, poi, complicò la comprensione della realtà delle zone interne dell’isola. Molti inviati dei giornali “continentali” finirono per dare addirittura una dimensione eroica alla vita disperata dei banditi sardi. Descritti perfino come probabili protagonisti di un ribellismo fondato su solide radici sociali: uomini ferrigni, legati a un rigoroso codice d'onore, che imbracciavano lo schioppo per combattere leggi ingiuste, costruite per proteggere un sistema sociale iniquo.

Ovviamente tutto questo non era vero, ma molti giornalisti si innamorarono delle loro romantiche bugie. Finendo addirittura per crederci. Come Federico Patellani, Gigi Ghirotti e Guido Vergani che contribuirono a creare, pur senza volerlo, un mito fasullo. Sta di fatto che l'equazione Sardegna uguale isola dei banditi diventò un assunto scontato, quasi un imbarazzante luogo comune.

Il racconto deformato e deformante dei media in quegli anni oscurava, inconsapevolmente, la realtà drammatica di quel tempo. Non certo per i sardi, però, che negli anni Sessanta si sentivano sempre più lontani dal resto dell’Italia del boom economico, appesi all’esile filo di speranza del Piano di Rinascita.

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C’è poi quasi uno straniamento antropologico della nostra generazione che è molto difficile raccontare. Ed è quello della mancanza della cosiddetta consapevolezza morale.

Noi adolescenti nuoresi non percepivamo l’enormità dell’abominio del sequestro di persona. Ne eravamo quasi mitridatizzati. In quel clima di paura eravamo infatti nati e cresciuti. Perciò non vivevamo l’atrocità di quel sistema criminale come una ferita dolorosa al patto implicito della convivenza sociale, ma quasi come un destino. Un qualcosa di ineluttabile che c’era sempre stato e sempre ci sarebbe stato. E di questo noi non ci sentivamo responsabili, ma vittime.

La nostra rabbia di giovani nuoresi era quella di pagare per un peccato che non avevamo mai commesso. Ma oggi, andando a ripercorrere quei giorni con un’età e una maturità diversa, ci rendiamo conto che però un peccato l’avevamo commesso: non eravamo stati in grado di raggiungere la consapevolezza morale di quanto accadeva. Non percepivamo insomma l’abisso che ci circondava. Ecco perché allora il calcio non era per noi solo un gioco, uno sport. Era invece una strada di rivincita, un percorso di affrancamento e di liberazione. Il calcio era diventato così quasi un simbolo e Riva era il suo profeta.

Per concludere, vorrei riproporre un’emozione, un vissuto personale che ho già raccontato, facendo uno strappo alla regola aurea secondo la quale al giornalista è proibito parlare di se stesso. E cioè come e quando compresi cosa racchiudeva quel felice soprannome che Brera aveva affibbiato a Riva: “Rombo di tuono”. Per comprenderlo davvero si doveva prima di tutto aver partecipato al rito primitivo dell’Amsicora. Io lo capii in un freddo e luminoso pomeriggio del dicembre 1970, quando tradii un antico amore sportivo. E non era facile abbandonare il Milan del paròn Nereo Rocco, del genio gentile di Gianni Rivera, del ragno nero Cudicini e di quell'implacabile avvoltoio dell'area di rigore che era Pierino Prati: un giovanottone di Cinisello Balsamo che l'anno precedente aveva “punto” mortalmente i Celti nella loro tana ghiacciata di Glasgow e aveva infilato tre palloni velenosi nella porta del non ancora leggendario Ajax di Johan Cruijff, portando il Milan sul tetto d’Europa.

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Quel giorno ero andato in curva per ammirare (e tifare silenziosamente) il Milan che stava rinverdendo i fasti dello squadrone di Josè Altafini e di Dino Sani. Ma all’Amsicora quel pomeriggio scoprii invece Riva. Quando il pallone arrivava dalle sue parti, calava il silenzio. Improvvisamente. Un silenzio assoluto e impossibile: era l'attesa dell’evento. E Riva partiva. Come un treno, come un'onda in piena. L’aria cominciava piano piano a vibrare: prima un brivido, poi un sussurro, poi un brusio che cresceva con l'incedere potente e dirompente del gladiatore con la maglia numero 11. Fino a diventare un ruggito, un boato, quasi un tuono che metteva i brividi ed era capace di scuoterti le budella. E Riva pareva volare su quel fragore che sembrava un'onda violenta. Poco prima della fine del primo tempo Riva scagliò un missile da oltre trenta metri che fece sembrare goffo l’inutile volo di quell'immensa libellula nera che era il grande Fabio Cudicini. Per la cronaca, Prati riuscì fortunosamente a impedire l’umiliazione della sconfitta al Milan campione del mondo e d’Europa.

Ma il Diavolo quel giorno uscì a pezzi dall'Amsicora. La Sardegna aveva vinto. Noi avevamo vinto.


 

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