Riflessioni al tramonto sulle aggravanti dell’amore
L’ultimo libro di Antonio Pascale: veloce, leggero, fatto di brevi dialoghi Un uomo solo seduto su una panchina per coinvolgere subito il lettore
«Si può recensire un tramonto?», si chiedeva Emanuele Trevi, poco più di vent'anni fa, nell'incipit del suo “Istruzioni per l'uso del lupo” (o meglio: lo chiedeva, in una sorta di lettera aperta - in realtà un fortunato libello di riflessione sulla critica letteraria - al suo amico scrittore Marco Lodoli). Una domanda quasi spiazzante per il suo ingenuo acume, ma necessaria: se si volesse indagare su quali siano le possibilità di raccontare, insieme, l'ovvio e l'ineffabile.
Trevi non poteva sapere cosa sarebbe successo ai tramonti nei due decenni successivi, all'epoca della loro (privilegiata forse, ma certamente virale) riproducibilità tecnico-digitale (e diremmo soprattutto “social”). Ma anche senza l'esasperante inflazione fotografica di questi ultimi anni, non si può negare che il tramonto sia a tutt'oggi il soggetto preferito di ogni poeta della domenica che si rispetti, la destinazione finale di ogni passeggiata che voglia apparire riflessiva; certo, più nelle dimensioni e nello spessore della cartolina che nell'apocalittica allegoria nello spirito del secolo scorso (Spengler?). In ogni caso, ormai sappiamo che il cielo è sempre cristallino «nella luce soffusa del tramonto» e non ci sono più nebbie che ospitano viandanti, né siepi che oscurano l'orizzonte.
Perciò non deve sorprendere che uno scrittore attento alla presa diretta dello “spirito del tempo”, come Antonio Pascale, apra il suo ultimo lavoro, “Le aggravanti sentimentali” (Einaudi, pp. 181, 18,50 euro) con l'immagine di un uomo solo, seduto su una panchina, «con il braccio destro disteso lungo lo schienale», che osserva nientemeno che il tramonto. Quell'uomo - naturalmente - è lo stesso scrittore, che ha anche la premura di coinvolgere il lettore nelle proprie difficoltà della messa in scena di sé come personaggio: «Gli inizi dall'alto sono suggestivi, tuttavia per concentrarci meglio sul personaggio conviene abbassare la camera, tra la folla e i turisti, mi notereste subito».
Pascale, in questo libro veloce, leggero, fatto di brevi dialoghi e contrappunti, sembra svolgere la stessa indagine che occupava Trevi: sondare le possibilità di racconto della più consunta ovvietà, quella di riti e rapporti di un gruppo di intellettuali e artisti romani e, contemporaneamente, lasciare fluire carsicamente le inquietissime ossessioni dell'autore (non solo quelle più evidenti sull'Universo o la fisica, la questione centrale è certamente quella sul destino e il determinismo): le stesse che relegano i sentimenti a semplici aggravanti o attenuanti.