La Nuova Sardegna

Quando i migrantes diventano “studentes”

di Giacomo Mameli
Quando i migrantes diventano “studentes”

Il liceo "Armando Businco" di Jerzu è un esempio di integrazione grazie all'impegno della comunità

25 novembre 2016
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JERZU. Migrantes? Nelle aule del liceo “Armando Businco” sono “studentes” o “compagni di classe”, perfettamente uguali agli altri 420 alunni di in istituto comprensivo che prepara tecnici, ragionieri, con formazione linguistica e commerciale. Succede anche in altre parti della Sardegna che sa essere ospitale. Sotto i tacchi di Jerzu, ai piedi del Partenone di Monte Corongiu e delle guglie di Sant'Antonio, quelli che fuggono dal Continente nero sono tredici, tra poco diventeranno 19. «Li accogliamo, li integriamo volentieri nelle varie classi soprattutto perché sono loro a voler imparare», dice il preside Ignazio Podda, oristanese di 64 anni, per anni in cattedra fra il Nuorese e la Gallura.

Tutti sotto i 18 anni, giovani, atletici, simpatici, i più sorridenti in felpe con scritte anglofone, berretti da baseball. In mezzo ai Cuccu e ai Piras, ai Loi e ai Demurtas, ai Puddu e ai Serra, al momento dell'appello risuonano i Sidibe della Costa d'Avorio, i Sammi Rabiu e Balamin del Ghana, i Diagne del Senegal, Abucaca Camara dal Mali, Diallo Mohammed Bailo della Guinea. Con loro tanti somali come Adem Abdi Raham, Moammed Abdullahi o il capogruppo OmarAlì Kadar che parla inglese, etiope, arabo e italiano. «In queste aule abbiamo trovato insegnanti come genitori e compagni di banco come fratelli, non ci sembra vero. Io vengo da una Somalia sempre in guerra e sconvolta da lotte tribali. Per noi è un lusso anche un sorso d'acqua. Questo è un altro mondo, è un nuovo mondo. Grazie Italia. Grazie Ogliastra». Aggiunge Kadar: «Sono incantato dalle montagne di Ulassai, ho visto le opere di Maria Lai. Vorrei che venissero anche i miei quattro fratelli, ma non abbiamo i soldi per il viaggio». L'esperienza in questa scuola? «Molto bene, stiamo imparando l'italiano con insegnanti bravi e pazienti, ci capiscono». C'è anche una tedesca, Samira Harwardr, 16 anni, di Berlino, è qui con Intercultura. «Mi trovo a mio agio con loro e fra loro, soffro per le condizioni di vita nei loro Paesi di origine. Noi europei non ci rendiamo conto di quale fortuna godiamo».

Nessuno di questi ragazzi ha vissuto la tragedia dei barconi nel Mar Mediterraneo diventato cimitero sconfinato senza croci e senza nomi. Hanno attraversato tanti deserti dell'Africa centrale ed equatoriale pagando 350, 800, anche duemila euro a testa. Camion malandati tra Guinea, Mali, Burkina Faso, Niger. E poi una nave verso l'Italia, dai porti dell'Algeria o della Libia. Una frase ricorrente, di bocca in bocca, ancora pronunciata in un italiano stentato, domina le loro testimonianze: «Noi scappiamo dalla fame, dalle malattie, dalla sete, dalla mancanza totale di lavoro». È Omar Alì Kadar, il somalo poliglotta, a riassumere le esperienze e i sogni dei propri compagni. «Vorremmo vivere come voi, ma nelle nostre nazioni ci sono guerre e fame. E chissà quanto dureranno. Per questo lasciamo genitori e fratelli. Ma vogliamo tornare da loro». Mousse Njie, 15 anni, del Gambia: «Mio padre è morto di malattia, siano sei fratelli, ho pagato ottomila euro per passare dal mio Paese al Nord Africa, poi un barcone fino a Lampedusa, tre giorni e tre notti di mare in tempesta, ma sono vivo. E qui sto bene, sto bene nell'albergo di Tertenia, gioco a pallone, e studio, mi piace studiare». Dibascy Dimdin, di Basse, seconda città della Guinea: «Mio padre vive nei campi di riso, pomodori e arachidi, ma non basta per vivere». Osman, senegalese: «Da noi si mangia una volta al giorno, e poco». E il futuro? Vorrebbero diventare carpentieri, infermieri, insegnanti, muratori. Achi dice: «Vorrei creare al mio paese in Nigeria un allevamento di pesci». Il momento più bello? Quello della ricreazione quando i nerissimi volti dei ragazzi africani – nel baretto della scuola sotto la Times Square di Costantino Nivola, La mattanza di Foiso Fois e Il giardino anni '30 di Bernardino Palazzi - si mescolano ai volti bianchi, ai capelli biondi delle ragazze e alle zazzere più strane, tante teste rasate con ciuffo, tra lo spettinato e l'arruffato, sleek style e brush back. Abbigliamento da globalizzazione tra jeans slabbrati, pochi pantaloni normali, felpe a gogò, berretti, scarpe delle stesse marche indossati dagli italiani e dagli africani. E tanti tentativi di stringere amicizia, di provare un affetto.

Il vicepreside, Alessandro Bianco: «Questa esperienza ci sta motivando nell'essere insegnanti». Soddisfatti anche i titolari delle strutture che ospitano gli africani. «Sono come fratelli e figli», dicono Luigi Deiana, 43 anni, e Fabrizio Piroddi, 42, titolari dell'hotel Nastasi a Sàrrala di Tertenia. «Sono educati, sognano una vita migliore nei Paesi dove sono nati e dove hanno lasciato i genitori». Ma questo - si sa - è il problema irrisolto della politica mondiale che nulla ha da ridire sulla globalizzazione dell'economia ma esterna il peggio di se stessa nel rendere universali i diritti civili. In Ogliastra, come in altre parti dell'Isola, ci si sta provando. Ed è confortante che si inizi dai banchi di una scuola.

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