La Nuova Sardegna

Clarkson: «Racconto i contorni sempre instabili del reale»

di Costantino Cossu
Clarkson: «Racconto i contorni sempre instabili del reale»

Parla l’autrice del romanzo “L’eredità dei petali d’avorio” da venerdì in edicola per la collana Scrittori di Sardegna

03 maggio 2018
5 MINUTI DI LETTURA





«Nella città d’acqua», il primo romanzo di Giulia Clarkson, il tema della memoria s’intreccia con quello della perdita: la perdita di un mondo d’acqua sostituito da un mondo di cemento. Da domani, nella collana Scrittori di Sardegna, la Nuova propone il secondo romanzo della scrittrice cagliaritana, “L’eredità dei petali d’avorio” nel quale lo stesso tema, quello della perdita, viene declinato in una diversa maniera. Una linea di continuità di cui abbiamo parlato con l’autrice.

Come nasce, nella “Città d’acqua”, il personaggio del protagonista, Frantziscu?

«Le città, come gli esseri umani, sono sfaccettate, composte da parti dure e molli, da vuoti e pieni, da luoghi di memoria valorizzati e altri abbandonati. E, sempre come le persone, le città sono in continua evoluzione. Ecco, c’è stato un periodo in cui sembrava intrinseco alla città dover puntare su ciò che appariva più solido, duraturo, spigoloso. Che corrisponde all’immediatamente riconoscibile e umanamente controllabile. N el caso del mio libro, Cagliari, ignorando possibilità di una diversa armonia (farsi città-giardino o città-acqua), lascia deperire la sua laguna e segna il destino di una antica comunità di pescatori e di Frantziscu, scaraventato fuori dal suo mondo e chiamato a scoprire nuove parti di sé».

Frantziscu è una creatura dei margini. Uno spostamento dal centro che consente di leggere meglio la realtà, di svelare l’inautenticità del reale?

«È un figlio di nessuno che dunque si inventa a partire dall’esperienza di ogni giorno e non deve niente a chi l’ha messo al mondo. Ed ha l’occhio ingenuo di chi deve ancora tutto conoscere. Può permettersi di dire ogni cosa senza dissacrare niente, ma soprattutto di attraversare la verità del proprio sentire, partendo dalle necessità più autentiche».

In “L’eredità dei petali d’avorio” il fuoco dell’attenzione si sposta più decisamente verso il passato. Un romanzo in cui lo scandaglio gettato all’indietro nel tempo serve a dare senso al presente di Viola, la protagonista. Che fa i conti con se stessa e soprattutto con il suo rapporto con il padre…

«Due secoli lungo binari paralleli, per scoprire qualità umane che Viola non ha avuto occasione di incontrare, nella voracità predatoria della sua famiglia. Al contrario di Frantziscu, qui i personaggi hanno forti legami col passato e pesanti eredità da sostenere. Alcune esplicite da subito, altre che vengono loro consegnate solo alla fine del tragitto, e che aprono a sentimenti e possibilità prima non contemplate. Spesso le storie ci precedono e non di meno ci appartengono e contribuiscono a determinare il nostro modo di essere, anche se non le conosciamo. Non tutto ci è immediatamente visibile, ed è alla ricerca dei segreti che spesso si muove anche la scrittura».

Tu vieni dal teatro, in particolare dal teatro di strada. Cosa è rimasto di quella esperienza nel tuo lavoro di scrittrice?

«Fare teatro ti segna per la vita, non solo nella scrittura. Il teatro è sinonimo di energia ben dosata e cesellata alla perfezione. Ti fa fare esperienza degli infiniti modi di camminare, di prendere un oggetto, di guardare. Ti insegna che una sedia non serve solo a sederti ma ti permette di cambiare orizzonte, se ci sali sopra in piedi. O diventa un rifugio, se ti ci infili sotto. Il teatro di strada poi, ti porta a contatto diretto con la gente, fa irruzione in ambienti non convenzionali, provoca imprevisti. È un ottimo esercizio per varcare il confine del noto e inventare novità sfidando la paura».

Per il teatro ha scritto anche spettacoli per bambini. L’infanzia e la prima adolescenza mi sembrano un punto di riferimento costante in tutti i tuoi lavori…

«Credo abbia a che fare con l’età: prima non pensavo che anche negli anni più maturi il cambiamento potesse essere così presente e sconvolgente. Da bambini si vive tutto per la prima volta, è pieno di sorpresa e meraviglia; da adolescente si rimescolano le carte per riordinare da noi quello che ci è stato dato. Il primo è un momento fondante, il secondo sconvolgente e rifondante. Quello che ho scoperto poi, è che non c’è fine alle possibilità di cambiamento nella propria vita, a patto di accettare la fatica che ogni salto comporta».

Tu hai vissuto la prima stagione di quella che potremmo definire la “nuova letteratura sarda”. Che cosa caratterizzava quella corrente?

«Molta voglia di dar voce a qualcosa che era rimasto al margine per troppo tempo. Non che racconti e storie di Sardegna non esistessero, solo non erano granché prese in considerazione su scala nazionale. È stato come se si dovesse essere in molti, tutti assieme, a gridare “ci siamo anche noi, e abbiamo argomenti forti al pari degli altri” per dover essere visti e riconosciuti. Poi c'è stata la nascita corale e partecipata del festival di Gavoi.

Oggi che cosa è cambiato rispetto a quella stagione?

«Credo che sia stato sventato il rischio di scadere nel folcloristico. La qualità delle produzioni culturali sarde è cresciuta, Mackbettu vince l’Ubu e molti autori hanno il giusto riconoscimento nel mondo. In qualche modo abbiamo conquistato un'etichetta di credibilità».

La Sardegna di oggi, sospesa tra un presente difficile e un futuro tutto da inventare. Come la vedi?

«Il richiamo alla necessità dell’invenzione è meraviglioso. Credo che sia tutto là, il contenuto della nostra pagina che non è bianca, perché comunque siamo in una realtà che procede da molto tempo, ma è sempre una prima pagina, nel momento in cui ci si interroga sul futuro. Forse, per riagganciarmi al discorso iniziale, non bisogna mai smettere di interrogarci con quali liquidi amalgamare il tutto, come dosare le risorse che abbiamo – le nostre e quelle della terra che ci ospita – e orientarle verso ciò che realmente dà benessere e può prometterlo alle generazioni che seguiranno. Credo che sia un discorso che debba cominciare da ognuno di noi, nel piccolo o grande delle nostre capacità e potenzialità, senza attendere provvedimenti che vengono dall’alto. Impariamo a fare meno gli assistiti e lasciamo che la politica si concentri sulle ampie vedute e su come liberarci dalla burocrazia che non trova corrispondenza nell’interesse pubblico, e anzi spesso lo ostacola».

In Primo Piano
Disagi

Alghero, tre passeggeri lasciati a terra per overbooking da Aeroitalia

di Massimo Sechi

VIDEO

Il sindaco di Sassari Nanni Campus: «23 anni fa ho sbagliato clamorosamente. Il 25 aprile è la festa di tutti, della pace e della libertà»

Le nostre iniziative