La Nuova Sardegna

Sironi, il difficile rapporto tra arte e Storia

di IGINO PANZINO
Sironi, il difficile rapporto tra arte e Storia

Da venerdì in edicola il nono volume della collana “Storia di Sardegna” dedicato all’artista e curato da Lorella Giudici

11 dicembre 2019
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La figura gigante di Mario Sironi è una delle più cruciali e rappresentative degli intrecci intercorsi tra arte e storia del secolo scorso. Un personaggio che, insieme ad altri come Louis Ferdinand Céline, Ezra Pound e anche il nostro Giuseppe Biasi, per citarne solo alcuni, ha sollevato problemi non indifferenti per chi cercava e cerca di guardare al rapporto tra cultura e politica.

La domanda che ci siamo sempre posti va un po’ articolata: il fascismo e il nazismo hanno rappresentano un ritorno al lato oscuro della natura “animalesca” dell’uomo, una forzata riconquista di una purezza in nome della quale si doveva anteporre il raggiungimento del proprio ‘destino’ al rispetto per i propri simili. Un’idea di contatto diretto con la natura primigenia da realizzare attraverso la cura del corpo, della fisicità che è approdata dritta difilato all’elaborazione del concetto di razza superiore. Quante volte li abbiamo visti correre biondi e nudi in mezzo alla neve e gettarsi nei laghi gelati e qui da noi, più bruni, in modo più circense, saltare in mezzo a cerchi di fuoco.

CONFLITTO. Chi è gramscianamente convinto che l’unico modo per correggere i limiti di questa natura, insita in ognuno di noi, sia quello di cercare un’emancipazione attraverso il sapere, la cultura, e pensa, a questo proposito, che anche l’arte sia uno strumento di riscatto, si è sempre chiesto dunque come un artista dello spessore di Sironi abbia potuto mettere al servizio del “male” le sue qualità, dando luogo a un conflitto, che ancora ci angoscia, tra la storia dell’evoluzione del pensiero e la storia politico-sociale dell’epoca in cui operò. Fin dalla fine dell’800 l’arte ha perso quelle che un volta erano sue funzioni peculiari di informazione, istruzione e di narrazione storica. E’ stata sostituita in questi compiti dall’invenzione della fotografia, del cinema, di tutti i nuovi media e dal superamento dell’analfabetismo. Da quel momento, per gli artisti, è stato un succedersi incessante di tentativi di riconfigurazione delle proprie funzioni, di ricerca di nuovi ambiti in molti casi con risultati meramente formalistici. E’ l’epoca delle avanguardie storiche, pensiamo, qua da noi per esempio, alla Metafisica dechirichiana, una tendenza che negava all’arte qualsiasi funzione e qualsiasi contatto con la realtà, e che seguiva l’idea di rifondarsi creando un universo a sé stante, un mondo parallelo, per l’appunto metafisico, dove rifugiarsi.

IL GIUDIZIO DI ARGAN. Sironi si formò, crebbe e lavorò nel pieno svolgimento di questo processo. Secondo lo storico dell’arte Giulio Carlo Argan, il fascismo non ebbe mai una sua vera arte, un’opinione che si può condividere o non condividere; non si può però negare che questa dittatura ebbe i suoi artisti che aderirono consapevolmente ai suoi programmi e alla sua organizzazione. Interrogato da Tomaso Trini sulle differenze di atteggiamento che nazismo e fascismo ebbero verso l’arte, Argan rispose che mentre per i nazisti la cultura era una cosa seria e perciò pericolosa, tanto da indurli a ridurre al silenzio o costringere alla fuga gli artisti delle avanguardie tedesche, il fascismo al contrario considerava la cultura come una specie di innocuo passatempo, ragione per la quale gli artisti italiani poterono lavorare con una maggiore libertà rispetto ai loro colleghi d’oltralpe. Sironi fu uno dei principali protagonisti di questo coinvolgimento che si manifestò in diverse forme, a partire dalla collaborazione, con i suoi disegni e le sue vignette caricaturali, con la stampa del regime, fino ad arrivare ad elaborare una vera e propria iconologia distintiva del ventennio.

TRADIZIONE. Ma torniamo a guardare come l’artista si mosse nel confronto sulla ridefinizione dei compiti dell’arte di cui abbiamo parlato. Dopo una prima, transitoria adesione al Futurismo, fece parte di “Novecento”, che più che un movimento o una tendenza era un raggruppamento professionale di artisti di vario indirizzo e livello, accomunati dall’intenzione di salvare la «sana tradizione italiana». Il suo contributo più originale alla storia del momento artistico si sviluppò negli anni Trenta, quando, sospendendo la pittura da cavalletto, iniziò a realizzare delle grandi opere di arte pubblica che corrispondevano in pieno al suo concetto di arte, del suo agire nel mondo. Un’idea di arte perfettamente integrata con la società, non solo in quanto simbolo dei valori individuali e collettivi, ma anche come strumento che rende espressivo l’ambiente in cui viviamo. Un sogno multiestetico da seguire proprio nel momento in cui l’arte attraversava la sua crisi d’identità, una strada che superasse l’indirizzo estetizzante di quel Modernismo orientato verso il decorativo. Un progetto che richiedeva l’impegno di ideare gli ambienti nel loro insieme, definendone tutti gli aspetti fino ai minimi particolari, nel segno di una sublime austerità. Seguiva in questo modo un principio di unitarietà del progetto che restava comunque di ambito modernista.

ARTE SOCIALE. Questo contributo venne spesso liquidato in modo alquanto sbrigativo dalla successiva critica antifascista. Lo stesso Argan, pur riconoscendone la grandezza, scrisse – semplificando – che Sironi «dissimula il tono oratorio con una concisa asprezza espressionistica». Si può forse dire che l’artista fosse convinto che soltanto un regime autoritario potesse assicurare lo sviluppo di un’arte sociale di carattere populista ma “alta” e che perciò sostenesse l’autoritarismo del sistema attraverso l’ autorevolezza e l’eticità del suo lavoro. Del resto sappiamo che arte e democrazia non sempre viaggiano in sintonia, che l’affermazione di artisti, di opere e movimenti non si decidono per alzata di mano e che alla lunga anche le protezioni dei potenti non superano il vaglio della storia se l’artista non è realmente tale.Va ricordato infine che Sironi, fascista talmente fedele da aderire alla Repubblica di Salò, tuttavia nelle sue “celebrazioni” dei risultati del fascismo non incluse mai le leggi razziali, un punto sul quale dissentiva. Verso la fine della guerra l’artista corse il pericolo di fare la stessa fine di Biasi. Fu infatti intercettato, se non sbaglio a Milano, da un gruppo di partigiani, fra i quali c’era, per sua fortuna, Gianni Rodari, che lo riconobbe e convinse gli altri a lasciarlo andar via. Ci piacerebbe credere che a ruoli invertiti sarebbe successa la stessa cosa.

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