La Nuova Sardegna

Pupi Avati: «Vendevo cibi surgelati, 8 ½ mi ha salvato»

di Alessandro Pirina
Pupi Avati: «Vendevo cibi surgelati, 8 ½ mi ha salvato»

Il regista racconta la sua carriera in un libro. Dagli esordi nel jazz al film sulla vita di Dante

21 dicembre 2019
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L’Italia che Pupi Avati racconta da 50 anni fa piangere, sorridere, riflettere, talvolta fa anche paura. Perché la sua arte racchiude tutti i generi cinematografici. Il Maestro bolognese, 81 anni, è partito dai film grotteschi per passare all’horror e poi alla commedia, si è dedicato ai film medievali, per ritornare all’horror. E ora ha in cantiere un film drammatico e uno su Dante. Un curriculum d’autore con oltre 50 pellicole. Una carriera che Avati racconta nel libro “La terra del diavolo”, a cura di Claudio Miani e Gian Lorenzo Masedu, edito da Asylum Press Editor e Impossible Book, in vendita in tutte le librerie.

Lei è un Maestro del cinema. Quali sono stati suoi maestri?

«Io sono arrivato al cinema accidentalmente. Nel 1960-62 avevo dovuto lasciare la musica e mi trovai in una situazione di grande sofferenza. Avevo dovuto rinunciare a un sogno e rassegnarmi a vendere alimenti surgelati. Furono anni un po’ così. Sapevo che i miei amici stavano ancora girando l’Europa con l’orchestra jazz, mentre io ero a Bologna, sposato con due bambini a vendere bastoncini Findus. Fortunatamente vidi questo film, “8½”, che mi aprì gli occhi sul cinema e sulle sue potenzialità. Mai avrei immaginato che esistesse uno strumento attraverso cui dire di sé quello che avvertivi necessario dire. Un mezzo che racchiudeva la letteratura, la musica, le arti figurative. In quel momento mi sono innamorato del cinema ed è iniziata questa complicata avventura, fortunatamente e miracolosamente ancora in piedi anche se con salite sempre più impervie».

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Dobbiamo, dunque, ringraziare Fellini.

«Molti colleghi della mia generazione hanno deciso di fare cinema dopo aver visto “8½”. Un film tossico che ha ammaliato un sacco di persone, ti resta dentro. La figura del regista che propone Fellini è così seducente che è impossibile non restarne ammaliati».

I suoi inizi sono nella musica, ma l’arrivo di Lucio Dalla la portò ad abbandonare la sua orchestra.

«La convivenza con Lucio fu complicata. Suonavamo lo stesso strumento, il clarinetto, e lui in un brevissimo arco di tempo migliorò in maniera esponenziale. Grazie a lui capii la differenza tra talento e passione. Io avevo passione, caparbietà, ma ero privo di quel talento di cui lui disponeva liberamente. Il jazz è una musica fortemente competitiva ed era impossibile un confronto nella stessa orchestra. La musicalità di Lucio non l’ho più ritrovata in alcun musicista».

Oggi esce il libro “La terra del diavolo”. Da cosa nasce questo titolo?

«Lo ha inventato l’autore, un pazzo cinefilo di film gotici, neri. È stato sedotto da alcuni miei film che appartengono a quel genere. E che sono stati ambientati in quella parte d’Italia rimasta legata a un passato remoto. Nelle valli del Po, da Comacchio verso il Veneto, si trovano solo acqua, argini e aironi che volano tra le nuvole. Non sai in che secolo sei e questo produce bellezza ma anche inquietudine. La favola contadina ha ancora diritto di cittadinanza. E infatti Igor il russo è andato a nascondersi in quelle zone».

Il suo primo film fu “Balsamus, l’uomo di Satana”.

«Erano film grotteschi, avevano a che fare col parapsicologico. Film fortemente sessantottini, provocatori. Era un cinema che non incontrava il favore del pubblico, voleva provocare».

“La casa dalle finestre che ridono” è il suo successo horror, considerato un cult.

«È una cosa che mi commuove. Quando vado a fare incontri, conferenze, giovani con 50 anni in meno di me vengono con il dvd della “Casa”. Questo è un genere che non ha età, che sopravvive alle generazioni. È inspiegabile che in Italia non si faccia quasi più. Eppure Argento, Bava, Deodato, e anche io, abbiamo venduto in tutto il mondo».

Quest’anno è tornato all’horror con “Il signor Diavolo”.

«Ho voluto fare una specie di tagliando per vedere se ero capace di fare un film di genere senza rinunciare alla mia identità di autore. Un mix non facile da rispettare. Da quello che dicono ci sono riuscito».

Dall’horror è passato alla commedia. Cosa l’ha spinta?

«Le persone non devono mangiare sempre dallo stesso piatto. Questo non vuole dire essere incoerenti. Io credo di essere sempre io con la mia identità, calligrafia, tono di voce anche se propongo menù diversi. Io non mi sono risparmiato, ho fatto tutto, forse mi manca solo il western, ma non ho mai rinunciato alla mia identità».

In Italia sono pochi i registi che affrontano più generi.

«Eppure è un arricchimento. Io sono amico di Dario Argento, ma non capisco come abbia fatto a fare un solo genere in tutta la sua vita. Diventa noiosissimo. Io adesso sto lavorando a un film drammatico e alla biografia di Dante. Ho contemporaneamente su due tavoli diversi un film storico, sulla poesia, su un essere umano, e un racconto moderno. Eppure non mi sento diverso. La mia voce, il mio lessico restano gli stessi».

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Lei è uno che sa valorizzare gli attori: penso ad Abatantuono, Delle Piane, Ricciarelli, Marcorè, Incontrada. Come fa?

«Il merito è soprattutto di mio fratello Antonio che ha una grande conoscenza del mondo degli interpreti. Al di là di questo, noi andiamo a cercare dove gli altri non vanno. Quando uno è stato dimenticato o emarginato è nella condizione migliore per dare il meglio di sé. Se vai a cercare chi ha dentro un grande risentimento questa persona tende a considerare l’opportunità che gli stai dando come un qualcosa di straordinario. Abatantuono o Delle Piane o Albanese erano in una situazione di grande difficoltà, si sarebbero buttati da un palazzo per farmi contento».

Con Sharon Stone invece non c’è stato feeeling.

«Non ci poteva essere. Sapeva di essere Sharon Stone credendo che ci avrebbe risolto la vita. Invece, nessun vantaggio e il film non è andato bene».

Sono passati 21 anni dai Golden Globe a cui fu candidato per “Il testimone dello sposo”. Soffre ancora per quella mancata vittoria?

«Non ci andrei più con le illusioni di allora. Ci avevano detto che avevamo vinto, invece abbiamo visto premiare gli altri. Felicissimo di essere arrivato in nomination ma quando sei lì vuoi vincere. Una vicenda del genere l’avevo raccontata in “Festival” ispirandomi alla mancata vittoria a Venezia di Walter Chiari».

Lina Wertmüller ha ricevuto l’Oscar alla carriera. Ci ha mai fatto un pensierino?

«Lina merita l’Oscar. E comunque i suoi film hanno avuto grande successo negli Usa, soprattutto tra gli italoamericani. I mie sono usciti in America, ma senza lo stesso successo».

Cos’è per lei Bologna?

«Una città da cui ho preso le distanze più di 50 anni fa, perché per poter raccontare ciò che ami è giusto produrre una distanza. E così l’ho potuta raccontare, con i suoi limiti, i suoi difetti, i suoi aspetti meno esaltanti».

Ha mai pensato a un progetto in Sardegna?

«No, io mi tengo un po’ alla larga dai posti che non conosco bene. Vivo da 53 anni a Roma e non ho mai raccontato una storia romana. Le mie radici sono altrove. Ma della Sardegna mai potrò dimenticare la mia prima volta. A Cagliari partecipammo a un festival, presentava Alighiero Noschese, e la nostra orchestra jazz batté tutte le altre».
 

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