La Nuova Sardegna

«Il nostro Chet Baker? Un genio tormentato»

di Andrea Massidda
«Il nostro Chet Baker? Un genio tormentato»

Parla Leo Muscato, regista dello spettacolo con Paolo Fresu sulla vita del trombettista americano. Date a Cagliari e Sassari

08 gennaio 2020
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SASSARI. Quasi due ore di spettacolo a metà tra una pièce e un concerto. Tutto per raccontare gran parte della vita spericolatissima di uno dei più grandi trombettisti della storia del jazz, Chet Baker, artista tanto maledetto quanto leggendario, la cui esistenza e carriera furono dannatamente segnate dall’abuso di alcol e di eroina, sino alla sua morte prematura avvenuta il 13 maggio del 1988, quando – secondo la versione ufficiale della polizia – cadde da una finestra del Prins Hendrik Hotel di Amsterdam, molto probabilmente sotto l’effetto di stupefacenti. Aveva appena 59 anni.

Un gigante della musica del Novecento, comunque. Tanto che Paolo Fresu – che molti anni fa lo incontrò in un locale ed emozionatissimo incassò i suoi complimenti – assieme al Teatro Stabile di Bolzano ha deciso di fargli un omaggio creando uno show originale dal titolo “Tempo di Chet. La versione di Chet Baker”, con in scena Paolo Fresu alla tromba e al flicorno, Dino Rubino al piano, Marco Bardoscia al contrabbasso e ancora le voci evocative di un cast di attori composto da Alessandro Averone, Rufin Doh, Simone Luglio, Debora Mancini, Daniele Marmi, Mauro Parrinello, Graziano Piazza e Laura Pozone. Una produzione nata dalla fusione e dalla sovrapposizione tra la scrittura drammaturgica di Leo Muscato e Laura Perini e la partitura musicale curata e interpretata dal vivo dallo stesso Fresu. Lo spettacolo andrà in scena al Teatro Massimo di Cagliari da stasera a domenica 12 gennaio (sino a sabato alle 20.30, la domenica alle 19 e giovedì doppia recita con la pomeridiana alle 16.30) per la Stagione del Cedac, per approdare lunedì 13 gennaio alle 21 al Teatro Comunale di Sassari. Venerdì 10 gennaio alle 17.30 inoltre la compagnia incontrerà il pubblico alla Fondazione di Sardegna, condurrà il giornalista Giacomo Serreli. «Quando con Paolo Fresu abbiamo parlato per la prima volta di uno spettacolo simile – racconta il regista Leo Muscato – siamo davvero partiti da un foglio bianco, l’unica cosa che sicuramente volevamo entrambi era quella di raccontare un pezzo di vita e di mondo artistico di figura così controversa. Subito mi accorsi che raccontare un’esistenza e un percorso artistico di tale intensità fosse molto molto complesso, tant’è che lo show parte da quando lui era adolescente sino ad arrivare a quando lui ha raggiunto l’apice del successo ed è iniziato il suo declino dal punto di vista prettamente umano».

Muscato, che cosa ha imparato sul personaggio Chet Baker analizzando a fondo la sua vita tormentata?

«Sicuramente lui fu una delle prime vittime non soltanto della tossicodipendenza, ma anche della guerra spietata che il governo americano fece agli eroinomani, considerati il male assoluto. Per il resto è un personaggio che non si fa afferrare. Tuttavia avendo letto migliaia di interviste, divorato libri su di lui e intervistato persone che lo hanno conosciuto, Fresu compreso, ho scoperto da un lato un essere umano che badava soltanto a se stesso, uno che andava dietro alle donne, alle automobili e la sua tromba disinteressandosi di tutto il resto, figli e moglie compresi; dall’altro lato, invece, ho trovato un uomo estremamente generoso, altruista».

Perché “Il tempo di Chet”?

«In primis questo titolo evoca ovviamente una componente musicale. Ma si rifà anche a una componente storica e ancora alle varie fasi contenute all’interno dello spettacolo: ci sono infatti dei momenti che sono dei veri e propri flash back in cui si raccontano concretamente episodi documentati, realmente accaduti. Poi c’è una sorta di tempo di sospensione, onirico, in cui Baker è seduto all’interno di un locale, e infine c’è la terza qualità di tempo con una serie di testimonianze fatte da personaggi che raccontano di lui per averlo conosciuto davvero. Ma, attenzione, ne danno la loro visione, e a distanza di poco tempo dalla sua morte».

E per fare tutto ciò avete utilizzato una cinquantina di personaggi interpretati da otto attori.

«Esatto. Poi tutta la narrazione teatrale è guidata dalle note di Fresu e compagni, i quali non si limitano a eseguire alla maniera loro standard celeberrimi come ad esempio “My funny Valentine” ma propongono anche molti pezzi originali con i titoli che alludono a diversi momenti della vita di Chet, oppure a luoghi vissuti nella sua gioventù e citati nel testo».

Senza questi suoi fantasmi Chet Baker sarebbe entrato comunque nella leggenda?

«Sinceramente? Non sono convinto che la sregolatezza produca necessariamente del genio. Ci sono talenti che hanno fatto meno rumore di lui e sono stati molto trascurati. Se Baker avesse avuto una vita più regolare, e quindi meno narrabile, forse non gli avrebbero dedicato film e documentari e noi non ci avremmo fatto uno spettacolo».

L’ambientazione che avete scelto è molto particolare. Non fosse altro perché è un jazz club che è esistito soltanto nei sogni di Baker.

«Alla fine degli anni Cinquanta Chet era in Italia e insieme ad alcuni elementi del Quartetto di Lucca aveva preso in affitto un locale a Milano. In quel periodo lui era appena uscito di galera e si era ripulito dalla droga. E in verità il luogo, per quanto bruttino, era effettivamente pronto per l’inaugurazione. C’era persino l’insegna. Poi accadde un incidente: arrivarono due musicisti suoi fan che lo supplicarono di aiutarli a trovare eroina. Alla fine Chet cedette e, manco a dirlo, ci cascò di nuovo».

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