La Nuova Sardegna

Fiabe di Sardegna, Tognolini: «Nato nell’isola dove si impara a raccontare»

ALESSANDRO MARONGIU
Fiabe di Sardegna, Tognolini: «Nato nell’isola dove si impara a raccontare»

Il poeta, scrittore per bambini e autore tv (“Melevisione” e “Albero azzurro”) spiega l’innata e tradizionale capacità dei sardi nell’inventare storie fantastiche

10 aprile 2020
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«Io sono un sardo urbanizzato, di Cagliari, il mio passato “leggendario” è quello dei giochi di bambino in via Firenze. E se pure non avevo chi mi raccontasse fiabe o leggende – ricorda Bruno Tognolini, uno dei più importanti scrittori italiani per bambini – la sarditudine mi è arrivata ugualmente grazie al mio nonno nuorese, Ciccitto, e la associo al pecorino, al profumo del formaggio che lui spennellava nella cantina: ho ereditato la sua cultura più per mezzo degli odori, dell’alimentazione, che altro. Nel tempo però, attraverso un’acquisizione letteraria, cioè dopo che ero andato a leggerle, trovandole bellissime, mi è capitato di ri-raccontare fiabe sarde».

In una delle biografie presenti sul sito personale di Bruno Tognolini – autore pluripremiato di una cinquantina tra romanzi, racconti e poesie usciti per editori come Salani, Giunti, Rcs, Panini, oltre che autore teatrale, televisivo (ricordiamo le lunghe esperienze in Rai, prima con “L’albero azzurro” e poi con “La Melevisione”), di media digitali e per il cinema – leggiamo: «Come si impara a scrivere?» La prima delle tante risposte che seguono è: nascendo in Sardegna.

«È una storia stupenda, intricata e controversa, controversa perché va controcorrente, in qualche modo – spiega Bruno Tognolini. Per tanti anni me la sono raccontata così, guardandomi indietro: dopo le scuole dell’obbligo ho fatto il Classico, il Dettori di Cagliari, e mi piaceva, studiavo Storia dell’arte, della letteratura, della filosofia, materie che mi entusiasmavano. Ma non c’era mai la Sardegna.

«Niente di quello che leggevo e studiavo – continua lo scrittore cagliaritano – era capitato qui da noi: e uno finiva per farsi l’idea che da noi non era mai successo niente, o almeno niente che fosse degno di menzione nei libri. Pensai: “Se voglio che mi capiti qualcosa, devo andare via, là dove succedono le cose di cui parlano i libri”. Al termine degli anni Settanta andai al Dams, a Bologna, ed entrai nel filone di pensiero che recuperava tutte le culture minori, sottomesse: imparai così, intanto, che non era vero che in Sardegna non era mai successo niente.

«Nel corso degli anni poi, io che amavo i classici, continuavo a chiedermi: “Ha un qualche senso un sardo che ama l’endecasillabo, l’ottava o la terzina incatenata dantesca?” Finché scoprii che la poesia sarda improvvisata si cantava in ottave: quelle stesse ottave classiche che piacevano a me. Per il mio mestiere di rime e metri mi capitò una volta di scrivere un poemetto proprio in ottave, che si chiudeva così: “Mai più inverno, mai più la primavera? / Per sempre estate, sì, per sempre sera”. Era la stessa struttura che sentivo, bambino, da mia zia Nietta, quando mi cantava: “Mancari chi bellettu ti’nde diasa / Bella nun sese – no – bella nun sese”; e la stessa che ritrovai nel cd di una cantadora fonnesa, Tomasella Calvisi, che in uno scongiuro contro l’Argia recitava: “Ca tue sese sa nostra ‘ighina / Ca tue sese – no – ca tue sese”.

«Ritmi, accenti, scansioni – spiega Tognolini – somigliavano o coincidevano perfettamente: insomma, a dispetto di venti anni di presa di distanza, quella cultura che mi era sembrata a lungo invisibile era invece rimasta in me attraverso vene carsiche, addirittura sottomarine. Prenderne coscienza fu un’emozione».

Tognolini ricorda di aver scritto, per un volume collettaneo del 2006 «una fiaba intitolata Maskingame che riprendeva la figura di Maskinganna, uno stupendo personaggio che mostrandosi in forme varianti ubriacava e frastornava i pastori solitari. Ne ho fatto l’antagonista di un bambino di paese che, grazie alla sua grande abilità di giocatore di videogame, aiuta il padre pastore a sconfiggere Maskinganna che lo aspetta sempre in agguato. Come questa ne ho ripreso diverse altre, con una sorta di rivisitazione “fusion”».

Impossibile, in queste settimane, prescindere da ciò che sta accadendo in tutto il mondo. Come spiegare il coronavirus e il Covid-19 ai più piccoli? Anche con le fiabe?

«Meglio un approccio informativo, meglio l’invenzione, la fantasia, o una compartecipazione tra i due può assolvere meglio al compito? Propendo per quest’ultima soluzione. Io ho fatto undici anni di “Melevisione”: il nostro compito lì era raccontare la realtà attraverso la fiaba, e giorno dopo giorno, nel Fantabosco abitato da streghe, orchi, elfi, principesse, parlavamo di un tema diverso, dalle farfalle alla spremitura dell’olio ai soldi e alla finanza.

«Questo mi ha insegnato – continua Tognolini – che ai bambini si può dire quasi tutto: non tutto, però, perché ci sono stagioni più adatte di altre a seconda degli argomenti. Per quanto riguarda il virus, sicuramente occorre spiegarglielo, e se si trova la giusta formula non è difficile: c’è un esserino che si diffonde nell’aria e ci fa ammalare, e ci siamo noi, gli umani messi a rischio, che cerchiamo i modi per difenderci».

La tecnologia ci sta dando un grande aiuto a mantenere vivi i contatti tra di noi in queste settimane di reclusione domestica, ma può essere anche un fattore di discriminazione. Uno studente italiano su cinque non ha modo di seguire la didattica on-line, e in Sardegna il dato è ancora più doloroso: uno su quattro. Questa di proseguire l’anno scolastico comunque, a tali condizioni, era la migliore soluzione possibile?

«Penso sia stato qualcosa di necessario. In diversi ambiti dell’emergenza, mi pare che l’attuale sistema italiano abbia dato delle risposte che tutto sommato, se non le migliori, sono le più adatte. L’evoluzione tecnologica si avvale anche di questi “incidenti”, di situazioni che costringono ad aguzzare l’ingegno, a fare dei salti in avanti. E molti insegnanti, che prima magari vedevano la tecnologia come un fastidio o un “demonio”, oggi ne vedono il volto umano, al di là del fatto che la tecnologia stia permettendo di mantenere attive le relazioni: perché gli smartphone hanno il volto dei loro alunni».

A proposito di social, segnaliamo in conclusione d’intervista che Tognolini da oltre un mese sulla sua pagina Facebook pubblica una rubrica giornaliera, la “Decamerina poetica per il Coronavirus”, alternando versi e filastrocche per i bambini «chiusi in casa» a versi per gli (altrettanto reclusi) adulti. E sono rime da leggere tra sé e sé ma anche a voce alta a chi ci sta attorno, per portare un po’ di gioia in questo brutto periodo che ci coinvolge tutti, indistintamente.

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