La Nuova Sardegna

«Dietro il crimine una società ingiusta e malata»

di PIERGIORGIO PULIXI
«Dietro il crimine una società ingiusta e malata»

Nel nuovo romanzo “I cerchi nell’acqua” una Milano noir raccontata dai margini  

20 maggio 2020
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Certi crimini non si concludono con una sentenza dell’autorità giudiziaria. Alcuni delitti lasciano cicatrici profonde sul cuore degli inquirenti. Diventano una faccenda personale. Tolgono il sonno. Portano a fare brutti pensieri. E quei pensieri a volte conducono in mondi sotterranei da cui sarebbe meglio stare alla larga. È quanto accade a Carella e Ghezzi, i protagonisti del nuovo romanzo di Alessandro Robecchi, “I cerchi nell’acqua” (Sellerio, 15euro) al primo posto nella classifica dei libri più venduti. Entrambi i poliziotti rubano la scena a Carlo Monterossi, l’autore televisivo protagonista dei libri precedenti. I due sbirri stanno seguendo delle indagini personali che fatalmente li porteranno a incrociarsi in una Milano dalle tinte fosche, dove tutto ha un prezzo. Quel costo lo dovranno pagare con la moneta sonante del rimorso. Per quello che poteva essere e non è stato. Per una promessa che non si è rispettata. Per una morale sgualcita dal tempo e da troppe iniquità.

Da anni ormai la narrazione che viene fatta di Milano è unilaterale: laboratorio del futuro, capitale “morale”, hub economico, culturale e architettonico. Sembra quasi un luogo idilliaco, dove il male è stato bandito, epurato. Nel suo romanzo, però, non è questo il ritratto dominante.

«È vero, la narrazione corrente di Milano è appiattita su una leggenda modernista che ne fa una specie di caricatura. Forse esagero, ma il mio modo di raccontare la città è un atto di ribellione a questa stupidaggine. Chi ha raccontato magistralmente Milano ha raccontato le sue ombre, le sue ferite, da Testori a Bianciardi, ma ci metto ovviamente anche Fo, Jannacci, Scerbanenco… Tutte quelle luci creano ombre gigantesche che si finge di non vedere. Milano paga il suo scintillio in termini di clamorose ingiustizie e diseguaglianze. È vero, Ghezzi mostra all’incredulo Monterossi un mondo che non conosce, quello dei miserabili, delle vite sospese, dei delinquenti. Qui non siamo tutti modelle, designer e archistar come si vuole far credere, vivo qui da sempre e considero un atto di giustizia raccontare una Milano reale, non seguire la propaganda».

Spesso a seguito di una grande tragedia – crisi finanziaria, disastro naturale o emergenza sanitaria – per una ripartenza del Paese si fa fluire tanta liquidità nelle arterie economiche della nazione. Altrettanto spesso questa liquidità è intercettata da “organizzazioni” che non sembrano aspettare altro per ripulire denaro. Milano non è nuova a questa dinamica.

«Certo, c’è questo rischio. La favola delle mafie “solo al Sud” è, appunto, una favola. Le mafie vanno dove ci sono soldi, affari, e qui ce ne sono tanti. In più la finanza è quasi un potere a sé, e il rischio che gli affari illeciti si riversino in investimenti “puliti” è conclamato. Difendersi dallo strapotere del denaro, dei poteri forti, è una questione di democrazia, oltre che di legalità».

Tutte le sue storie raccontano in qualche modo di un’ingiustizia. Nell’ultimo romanzo il fulcro oscuro della vicenda che dilania Carella è troppo gravoso da sostenere e si trasforma in un fuoco che infiamma il sovrintendente la cui bussola morale impazzisce.

«L’ingiustizia è ovunque e il noir, per sua natura, si occupa di bene, male, giusto, ingiusto, dolore… Carella prende ogni indagine come un fatto personale, e questa volta ancor di più, perché sente di non aver protetto una persona a cui teneva. È uno sbirro che deve fingersi delinquente per la sua indagine, fa cose che non dovrebbe. Ma la sua integrità etica e morale è inscalfibile. Sa che la giustizia dei tribunali non c’entra niente con il senso di giustizia che ognuno di noi ha (spero) dentro di sé».

Anche Ghezzi, che fino a questo momento ha incarnato la saggezza, la pacatezza e la riflessività, si trova a muoversi in una terra di confine – quella tra legalità e illegalità – a cui non è avvezzo.

«Il sovrintendente Ghezzi vive una sua strana crisi. Sull’orlo dei sessant’anni, è tentato dai bilanci e morso da nostalgie di cui non si credeva capace. Si era messo sul confine tra buoni e cattivi – da giovane, a inizio carriera – e ora quel confine non gli sembra più tanto netto. Ma capisce le vite degli altri, anche dei delinquenti che cattura. A un certo punto dice: “Questi qui, anche se non li prendiamo, il loro ergastolo se lo fanno lo stesso”. Ghezzi contiene una pietas che comprende sia vittime che carnefici».

I suoi romanzi sono infarciti di citazioni musicali. Spesso relative a Bob Dylan. Tra le sue tante canzoni-poesie qual è quella che più s’attaglia all’anima di “I cerchi nell’acqua”?

«Dylan è un grande amore del Monterossi, e anche mio. Quando il Monterossi ha un sobbalzo, uno spostamento del cuore, sa che troverà sempre un verso di Dylan che dice meglio di lui cosa sta provando. Ma non è a questo che servono i poeti? A dire meglio di noi cose che sentiamo e non sappiamo dire? Ne “I cerchi nell’acqua” Monterossi è un po’ laterale, quindi è laterale anche Dylan. Ma ho sentito la nuova suite di Bob, “Murder most foul”, un salmo lunghissimo che parla di tutto quello che abbiamo avuto e non abbiamo più, un rimpianto rabbioso che sarebbe perfetto per questo romanzo».

L’omicidio è il sassolino che infrange lo specchio liquido.

«Si pensa al delitto come a un fatto chiuso in sé, ma non è così. Le conseguenze dell’ingiustizia sono lunghe, infinite, proprio come i cerchi che fa il sasso nell’acqua. Se uno è vivo e dopo è morto, di giusto non c’è niente. Resta solo dolore, ed è difficile rimediare con una sentenza di tribunale. È una cosa che Ghezzi e Carella sentono sulla loro pelle, al punto di rischiare la carriera. Lo fanno per le vittime? Lo fanno per loro stessi? Non lo sappiamo, ma l’intensità di questo dubbio è il mood del romanzo e mi fa piacere che i lettori l’abbiamo capito».

Più va avanti con questa serie e più la sua vena di critica sociale s’inasprisce, smussata da una verve ironica che stempera i toni. Però si avverte, sotto il piacevolissimo intrattenimento della trama poliziesca, che i suoi noir hanno un altro spessore. Non si esauriscono nella sessione di lettura ma lasciano addosso una strana inquietudine, come quando vieni a conoscenza di una verità taciuta.

«Ciò che dice Petros Markaris, che il noir è il nuovo romanzo sociale, è verissimo. Ogni indagine su un delitto è un’indagine sulla società che lo contiene, sui suoi meccanismi culturali, economici, etici, morali. In più ci sono le vite degli altri: i buoni non sono mai solo buoni, i cattivi hanno i loro motivi per essere cattivi. Della giustizia, del dolore, del delitto non bisogna fare una caricatura. Il mondo là fuori non è una quinta teatrale, è roba vera, spesso sporca, brutta, cattiva. Mi fermo qui: la domanda contiene un complimento grosso, spero di esserne degno».



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