La Nuova Sardegna

Dalla Libia in cerca di bellezza

Dalla Libia in cerca di bellezza

«Dopo aver vissuto altrove per più di trent’anni, sono tornato in Libia, il luogo in cui sono cresciuto, il Paese delle mie origini, il punto dal quale ero partito e dal quale mi ero allontanato...

25 maggio 2020
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«Dopo aver vissuto altrove per più di trent’anni, sono tornato in Libia, il luogo in cui sono cresciuto, il Paese delle mie origini, il punto dal quale ero partito e dal quale mi ero allontanato sempre di più. Tornarci ha cambiato le sembianze sia del passato sia del futuro. Ho sentito l’urgenza di scriverne. Ho impiegato tre anni a finire il libro e sono riemerso a fatica da quel lungo periodo di assoluta concentrazione. È stato allora che ho deciso di andare a Siena»: comincia così il bellissimo, per la ricchezza dei contenuti e la qualità della narrazione, “Un punto di approdo” di Hisham Matar (Einaudi, 126 pagine, 16 euro).

L’autore rivela di aver rimandato a lungo l’appuntamento con la città toscana, fino a quando non ha più potuto eluderne il richiamo: e il motivo per cui questo richiamo si sia fatto tanto forte da vincere le precedenti resistenze è uno dei nodi del racconto destinati a rimanere senza scioglimento (sia per chi legge che per lo stesso Matar); così come quello per cui, nello scorrere di due decenni e mezzo, la sua fascinazione per la Scuola senese sia tanto cresciuta, anche a dispetto di una iniziale forma di “sospetto” verso dei dipinti percepiti come estranei: «Eppure continuavo, quasi mio malgrado, a tornarci davanti». Pochi anni fa Matar si risolve quindi per una permanenza a Siena, nella terra e nella civiltà che hanno dato i natali a Duccio di Boninsegna, Simone Martini e altri grandi artisti loro conterranei e contemporanei, per osservarne più da vicino le opere, a partire dagli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico. Con qualche deviazione dalla traccia maestra (è il caso del “Davide con la testa di Golia” di Caravaggio: e sono pagine particolarmente dense), il libico dispiega riflessioni e impressioni su questi capolavori del Tre, Quattro e Cinquecento italiano, ne indaga volti posture vesti dei personaggi, e i significati immediati e ulteriori.

Ma “Un punto di approdo” è molto più di questo. È un libro che, muovendo da una stagione e da un numero di opere circoscritti dell’arte medievale, crea legami imprevedibili con una variegata gamma di altri domini: con la politica recente, ad esempio – quella che fece scomparire nella prigione di Abu Salim il padre di Matar, Jaballa, strenuo oppositore del regime di Gheddafi –, o con una letteratura distante nel tempo e nello spazio come quella di Joseph Conrad. E ancora, “Un punto di approdo” è anche una guida inusuale e vivida a Siena, con noi lettori che seguiamo il vagabondare per le sue strade di Matar, e una famiglia di immigrati giordani che a Matar illustra il cuore pulsante della città e dei suoi abitanti, ovvero la divisione in contrade che sfocia due volte all’anno nel Palio.

Non si tratta di divagazioni da un tema principale, ma della ricchezza che dichiaravamo in apertura, cui si aggiunge da ultimo un aspetto che, se non può com’è ovvio concorrere all’estensione del giudizio di valore sul libro, concorre però ad aumentarne esponenzialmente la seduzione nei nostri confronti. Ci riferiamo al capitolo “Il problema della fede”, in cui Matar rievoca la Peste che dalla metà del Milletrecento in avanti fece, stando a stime a noi prossime, quasi venti milioni di morti nella sola Europa. Il testo originale è del 2019, ma più di un passo pare composto oggi: «Il contagio si diffondeva rapidamente. Nessuno ne conosceva la causa e nessun rimedio si era rivelato efficace. Il mistero era così fitto che già cominciavano a circolare strane teorie. Una cosa sembrava certa: era la fine del tempo». Inutile cercare di mettere a tacere l’inquietudine che si impossessa di noi.



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